L’energy crunch sta costando a Pechino 0,4 punti di PIL
(Rinnovabili.it) – Milioni di cinesi al buio, fabbriche che interrompono la produzione, rifornimenti di acqua e alcuni generi alimentari che iniziano a scarseggiare. Mentre l’Europa fa i conti con un prezzo del MWh altissimo e bollette sempre più salate, la Cina deve affrontare blackout e interruzione di servizi. È un energy crunch senza precedenti quello che ha piombato il Dragone nel buio da alcuni giorni. Quali sono le cause?
Europa e Cina: le politiche sul clima non c’entrano
In Europa il dibattito sul caro bollette ha subito puntato il dito contro la transizione energetica. Sarebbero le rinnovabili – inaffidabili – e un prezzo del carbonio troppo alto i responsabili dell’impennata dei prezzi dell’energia. In realtà il cuore del problema è l’aumento del costo del gas e – soprattutto – la grande fetta dei mix elettrici ancora occupata dalle fonti fossili. La transizione limita questi inconvenienti, non li aggrava. In Cina la situazione non è molto diversa.
Il primo colpevole a finire alla pubblica gogna per l’energy crunch cinese sono state le nuove politiche climatiche di Pechino. Il governo centrale ha lanciato una campagna a tappeto contro i cosiddetti “dual high”, un’espressione con cui la Cina indica i siti e le attività che hanno sia un’alta intensità energetica sia un’alta quantità di emissioni di gas serra. Il giro di vite ha preso la forma di ispezioni nelle (tante) province “ribelli”, dove i funzionari non hanno vigilato affinché l comparto produttivo ed energetico rispettasse gli obiettivi di intensità energetica loro assegnati (-18% entro il 2025).
L’energy crunch? Dipende dal carbone
Ma la stretta sui furbetti delle emissioni c’entra ben poco. C’entra invece il carbone, tallone d’Achille del colosso cinese. L’energy crunch dipende dall’aumento vertiginoso del prezzo del carbone, che a sua volta è dipeso da una combinazione di altissima domanda in Cina (causa rimbalzo post-Covid) e di scarsità di approvvigionamenti. Il consumo (e la produzione interna) di questa fonte fossile sono schizzati alle stelle nel paese dalla fine della fase più dura dell’emergenza.
Sotto la lente finiscono i tanti progetti nell’edilizia che il governo ha sponsorizzato per mettere il turbo alla ripresa. Ciò non ha impattato le bollette dell’elettricità, che sono calmierate (anche se il carbone pesa per il 57% del consumo elettrico), ma ha portato a un aumento dei prezzi del carbone e ha costretto molte centrali elettriche a ridurre l’acquisto del combustibile fossile per evitare di subire perdite, spiega a Climate Home News l’analista del Centre for Research on Energy and Clean Air Lauri Myllyvirta.
Intanto il paese va verso l’inverno senza molte certezze. Nel nord-est della Cina in questi giorni sono ko i riscaldamenti ma anche i semafori e gli ascensori. Molte fabbriche hanno interrotto le operazioni o proseguono con i giri al minimo, con Goldman Sachs che stima un impatto per il 44% dell’intero comparto industriale. Anche se la Cina non è più la “fabbrica del mondo” come qualche anno fa, il suo peso su molte filiere è enorme. Questo energy crunch sta costando al paese 0,4 punti di PIL e potrebbe riverberarsi anche da noi: filiere a singhiozzo significano scaffali un po’ più vuoti anche nel vecchio continente.
lm