Quante energie fossili dobbiamo lasciare sotto terra per rispettare l’accordo di Parigi?
(Rinnovabili.it) – Nel 2016, più di 400 organizzazioni della società civile e 60 paesi lanciarono la campagna “Keep it in the ground”. A restare sottoterra dovevano essere le energie fossili, una scelta presentata come necessaria se si vuole sperare di raggiungere davvero gli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima. Quanto carbone, petrolio e gas possiamo ancora estrarre esattamente, prima di sforare la soglia degli 1,5°C? E quanto deve essere rapida la transizione di Big Oil per accompagnare questo processo?
A queste domande rispondono due studi pubblicati in questi giorni che forniscono dati e proiezioni con orizzonte al 2030 e al 2050. I ricercatori dell’University College London stimano in un articolo pubblicato su Nature che, da qui alla metà del secolo, circa il 60% delle riserve note di petrolio e di gas e il 90% delle riserve di carbone devono restare sotto terra. Significa che la produzione di energie fossili deve scendere a un ritmo del 3% annuo per i prossimi 30 anni. Questi numeri non danno alcuna certezza di centrare gli obiettivi climatici globali: la probabilità di mantenere il riscaldamento globale sotto il limite di 1,5°C rispetto all’era pre-industriale arriverebbe appena al 50%.
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Un quadro simile è quello dipinto da Carbon Tracker in un rapporto sul ritmo della trasformazione epocale che il settore degli idrocarburi deve affrontare. Per non mancare l’obiettivo più ambizioso fissato con l’accordo di Parigi, la produzione di 20 delle 40 maggiori società di energie fossili quotate del mondo dovrebbe diminuire di almeno il 50% entro gli anni ’30. Tutto questo implica che non dovrebbero essere avviati nuovi progetti, lasciando andare a esaurimento quelli esistenti, mentre la situazione attuale è un’altra: tutte le compagnie stanno ancora pianificando nuovi investimenti per miliardi di dollari.
Di quanto deve calare la produzione? Carbon Tracker fa i conti in tasca alle singole major delle fossili. Le più colpite sarebbero quelle attive nello shale, visto che in media i tassi di produzione di idrocarburi non convenzionali devono scendere dell’80%. Ad esempio ConocoPhillips, che è specializzata proprio negli scisti, deve calare del 69%. Tagli alla produzione consistenti, secondo gli autori del dossier, sarebbero necessari anche per Chevron (52%), Eni (49%), Shell (44%), BP e ExxonMobil (33%), Total (30%). Il rischio, spiega il rapporto, è che senza questi tagli le aziende di energie fossili si ritrovino con investimenti che non ripagano, e quindi con bilanci disastrosi nei prossimi anni. Al ritmo di investimenti attuale, calcolano gli autori, gli asset in zona rossa perché non più competitivi rispetto alle rinnovabili potrebbero valere 1.000 miliardi di dollari. Un motivo in più per stendere dei seri piani per la transizione senza perdere tempo, consiglia il dossier a Big Oil.
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