Lo studio sulle emissioni delle monete virtuali è apparso su Joule
(Rinnovabili.it) – La fuga dei miners dalla Cina ha fatto aumentare le emissioni delle criptovalute del 17%. Dopo il bando totale sulle monete virtuali deciso da Pechino lo scorso settembre, i coniatori di Bitcoin hanno trasferito le loro attività altrove, soprattutto negli Stati Uniti, in Russia e in Kazakhstan. Ma il risultato sull’impronta ambientale complessiva del settore non è stata quella che gli osservatori si attendevano.
Lo rivela uno studio pubblicato su Joule da un team di ricercatori guidato da Alex de Vries, uno dei massimi esperti al mondo di emissioni delle criptovalute. In questo lavoro viene dimostrato che abbandonare un paese il cui mix elettrico è fortemente legato al carbone come la Cina non è in sé una garanzia di ridurre la CO2 generata dalla produzione di monete virtuali, un’attività ad altissima intensità energetica a causa dei complessi calcoli crittografici necessari.
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Per calcolare le emissioni delle criptovalute, i ricercatori si sono basati sui dati ricavati dalle mappe globali utilizzate da chi conia monete virtuali. In questo modo il team non è solo riuscito a seguire gli spostamenti delle attività di mining da un paese all’altro, ma anche a risalire alle regioni precise in cui i minatori di Bitcoin si sono installati. La maggior parte delle destinazioni si trova negli Stati Uniti e in particolare in 3 stati: Texas, Kentucky e Georgia.
Tutti e 3 questi stati hanno favorito attivamente l’arrivo dei miners attraverso un regime fiscale agevolato ad hoc. Il problema è che il loro mix elettrico è decisamente più legato alle fossili di quello cinese. Se dall’altro lato dell’oceano Pacifico i coniatori di monete virtuali facevano affidamento sulla quota di idroelettrico per definire “green” le loro operazioni, negli States l’elettricità che usano è generata quasi esclusivamente da carbone e gas fossile. In totale, la quantità di rinnovabili impiegata nel conio di monete virtuali è passata dal 42% di agosto 2022 al 25% attuale. Già nel 2017 le criptovalute consumavano 30 TWh di energia l’anno, come l’intera Irlanda. Nel 2020 le stime ipotizzano consumi anche triplicati, tra i 78 e i 101 TWh.
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