Le “liaisons dangereuses” tra moda e deforestazione dell’Amazzonia
(Rinnovabili.it) – A un estremo del diagramma l’icona di un’accetta conficcata nel tronco tagliato di fresco. Dall’altro lato, i simboli di 103 grandi marchi della moda e dell’abbigliamento: da Adidas a Zara passando per Calvin Klein, Lacoste, Nike, Salomon, Vans. Li collega un’infinità di linee che a prima vista sembrano un insieme caotico e difficile da comprendere. In realtà lo schema è molto semplice: i maggiori brand di questo settore manifatturiero sono tutti connessi con la deforestazione dell’Amazzonia in 6 passaggi intermedi al massimo. E l’Italia gioca un ruolo tutt’altro che invidiabile.
È il risultato di un dossier di Slow Factory che si intitola Supply Change e ricostruisce le catene di fornitori opache dietro ai principali marchi di moda e abbigliamento, diffusi in tutto il mondo. “Anche se nessuno di questi marchi sta deliberatamente scegliendo la pelle che proviene dalla deforestazione, stanno lavorando con produttori e concerie che si riforniscono da catene di fornitura opache e aziende che hanno legami noti con il bestiame allevato su terreni amazzonici recentemente deforestati”, spiega il rapporto.
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L’industria del bestiame, ricorda Slow Factory, è il singolo maggior fattore dietro la deforestazione dell’Amazzonia, così come a livello globale. Più di 1/3 dei terreni spianati dalle motoseghe in tutto il mondo sono destinati all’allevamento. In termini assoluti, di ettari abbattuti, l’allevamento pesa, da solo, il doppio di tutti gli altri driver sommati tra loro. Quasi metà di questo disboscamento avviene nella sola Amazzonia.
Numeri che fanno comprendere sia la dimensione del problema, sia quanto è difficile che un’azienda abbia una filiera realmente pulita. Il Brasile ha il comparto dell’allevamento più grande al mondo con 215 milioni di capi e i 6 maggiori fornitori di carne e pelli sono legati alla deforestazione dell’Amazzonia: Durlicuoros, JBS, Fuga Couros, Minerva, Vancouros, Viposa. Solo un colosso come JBS, tra marzo 2019 e marzo 2021, sarebbe responsabile di una deforestazione dell’Amazzonia di 30mila km2, di cui probabilmente più dell’80% condotta in modo illegale.
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Il quadro sembra semplice, ma ricostruire i collegamenti esatti non lo è affatto. Per riuscirci, Slow Factory ha incrociato 500mila dati doganali con altre fonti, dai report annuali delle compagnie che lavorano e trasformano le pelli in semilavorati (spesso cinesi) ai post sui social, fino a un database che raccoglie le relazioni tra casa madre e azienda sussidiaria.
Filtrando e analizzando questa mole ingente di dati, i ricercatori sono riusciti a stabilire da quali paesi avviene l’export di pelli legate al disboscamento della foresta pluviale brasiliana. In testa c’è la Cina con il 41,6% del mercato. Ma subito dopo troviamo l’Italia: il Belpaese è secondo con il 27,3%. Seguono poi, a grande distanza, Vietnam, Taiwan, India, Stati Uniti, Tailandia e Nigeria, tutti con una fetta più piccola del 10%.