Sono pochissimi i casi di compensazioni per danni ambientali di guerra
(Rinnovabili.it) – L’Ucraina può e deve chiedere compensazioni alla Russia per i danni ambientali di guerra. Kiev deve continuare a tenere traccia del degrado degli ecosistemi e dell’inquinamento causati dal conflitto. In modo sistematico e con una metodologia quanto più affidabile, che potrà servire da esempio anche per futuri conflitti che coinvolgano altri paesi. Deve poi elaborare una strategia legale che permetta di portare il caso in qualsiasi tribunale internazionale. E pianificare con cura una ricostruzione post-bellica attenta ad ambiente e clima.
Lo sostiene il rapporto conclusivo sui danni ambientali di guerra preparato dal gruppo di 12 esperti di alto livello e commissionato dal governo ucraino l’anno scorso. Tra gli autori, che hanno presentato una lista di 50 raccomandazioni, spiccano l’architetto dell’Accordo di Parigi Laurence Tubiana, l’ex commissaria Onu per i diritti umani Mary Robinson, e il commissario UE all’Ambiente Virginijus Sinkevičius.
Un modello per trattare i danni ambientali di guerra?
Oggi il tema delle compensazioni per danni ambientali di guerra è quasi una terra di nessuno. Anche se le convenzioni internazionali prevedono alcune fattispecie di crimini di guerra legati all’ambiente, è estremamente raro che siano state usate concretamente e con successo per quantificare delle compensazioni. Se si esclude il caso dell’Iraq, condannato per l’aggressione del 1991 al Kuwait, tutte le altre istanze sono andate avanti solo perché c’era la mutua volontà dei belligeranti a portare il caso in tribunale.
Kiev prova a fare un passo avanti con questo rapporto. “L’Ucraina può essere un esempio per il mondo. Dobbiamo farlo bene, affinché l’ambiente non sia più una vittima silenziosa né venga visto come un lusso a cui ritornare solo dopo che una guerra è finita”, si legge nella prefazione.
Uno dei punti centrali è la metodologia con cui vengono monitorati e quantificati i danni ambientali di guerra. Non ne esiste una condivisa e consolidata a livello internazionale, quindi si tratta i costruirla quasi da zero. È quello che l’Ucraina fa da 2 anni, e che il rapporto consiglia di continuare a strutturare in stretta collaborazione con esperti internazionali. Puntando soprattutto sull’impatto delle mine – oggi il 20% del territorio ucraino è minato, un’area grande come il Nord Italia, e il paese ospita il 35% della biodiversità europea – che deteriorandosi negli anni rilasciano sostanze chimiche tossiche nell’ambiente, e sulla devastazione seguita al crollo della diga di Kakhovka l’anno scorso. Monitorando anche gli impatti transfrontalieri, ad esempio quelli sul mar Nero.
Ci sono poi raccomandazioni sul piano legale. Tra cui rafforzare la collaborazione con la Corte penale internazionale, a cui Kiev si è rivolta già 2 anni fa, e la ratifica dello statuto di Roma su cui si basa la stessa Cpi. Oltre ad assicurare che la raccolta delle prove avvenga in modo compatibile con gli standard internazionali in materia. Il rapporto suggerisce anche di intentare una causa presso la Cpi rispetto al caso specifico del crollo della diga di Kakhovka, dalla maggior parte degli osservatori attribuita alle forze armate russe in un atto deliberato. La Cpi, dal canto suo, secondo gli autori del rapporto dovrebbe includere il reato di ecocidio tra le fattispecie perseguibili nel suo mandato.