Muro contro muro tra Washington e Pechino sulla crisi climatica
(Rinnovabili.it) – John Kerry è tornato negli Stati Uniti con un bottino magrissimo: nessun nuovo impegno comune con la Cina, il termometro delle relazioni tornato gelido e poche speranze di cambiare la rotta prima della COP26 di novembre. L’inviato speciale per il clima di Joe Biden aveva studiato la tre giorni a Tianjin per rafforzare l’asse con il primo inquinatore mondiale sul dossier crisi climatica. Alle sue condizioni. Pechino ha risposto di no, senza cedere su nulla.
Gli Stati Uniti stanno provando a mettere sul tavolo gli stessi ingredienti che avevano portato all’accordo di Parigi del 2015. Una fase di grandi, crescenti aspettative sul vertice internazionale. La diplomazia climatica a buon punto su molti temi chiave grazie al lavoro degli anni precedenti. Un accordo di collaborazione tra i due principali emettitori globali, Washington e Pechino, per far capire che si fa sul serio. Aspettative e diplomazia climatica ci sono anche nel 2021, ma la collaborazione tra le due superpotenze ha fatto flop.
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Kerry voleva un annuncio congiunto: nuovi impegni comuni sulla crisi climatica per alzare l’ambizione della COP26 di Glasgow. La strada verso il vertice di novembre è in salita, le tante parole di questi mesi non si stanno concretizzando in nessun accordo globale. Nemmeno sull’addio al carbone, in teoria uno dei punti più “semplici”. E ha fatto 3 proposte alla Cina: impegnarsi pubblicamente a rispettare la soglia di 1,5°C, promettere a breve una tabella di marcia dettagliata per raggiungere il picco di emissioni nel 2030, o una moratoria sul finanziamento di progetti all’estero legati al carbone.
Pechino ha risposto serafica: noi abbiamo i nostri piani e i nostri tempi per affrontare la crisi climatica. Non saranno gli Stati Uniti a dettarci l’agenda. Posizioni così distanti che Kerry e il suo omologo Xie Zhenhua non hanno neppure rilasciato un comunicato congiunto a fine visita.
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Le ritrosie cinesi riguardano la forma oltre che la sostanza. Kerry è arrivato con un messaggio distensivo: trattiamo il clima come un dossier separato da tutto il resto. Traduzione: continuiamo a pestarci i piedi su qualsiasi tema, dai diritti umani alla governance globale alle guerre commerciali, ma non tagliamo questo “cordone ombelicale” climatico su cui abbiamo un dialogo. Ma alle orecchie di Pechino la proposta suona diversamente. Più o meno così: noi, Stati Uniti, vogliamo continuare a mettervi dazi e sanzioni e collaborare sul clima con noi non vi servirà in nessun caso come merce di scambio.
Distanza siderale, con la finestra a disposizione per provare a rianimare una COP26 quasi in agonia che si sta chiudendo in fretta. Intanto parte la guerra delle narrative sul vertice. Negli Stati Uniti si dice che è colpa della Cina, disposta a sacrificare il mondo intero pur di rosicchiare un po’ della leadership globale a stelle e strisce. A Pechino si sostiene di aver rimandato a casa lo zio Sam che era venuto, per l’ennesima volta, a dettar condizioni e fare la morale pensando di trovare un interlocutore remissivo. Quello che è certo è che alla COP26 non si firmerà nulla se USA e Cina non sono d’accordo.