La COP27 si svolgerà in Egitto dal 6 al 18 novembre
(Rinnovabili.it) – Giusto e ambizioso. È questo il motto scelto dall’Egitto per la COP27 di Sharm el-Sheikh, il 27° summit sul clima delle Nazioni Unite che quest’anno si terrà dal 6 al 18 novembre. Giusto e ambizioso dovrà essere, nelle intenzioni degli organizzatori, l’accordo raggiunto al termine del vertice tra i quasi 200 paesi firmatari dell’accordo di Parigi (sono 193 più l’Unione Europea a settembre 2022).
Per capire come valutare l’esito della COP27, comprendere se risponde alle aspettative e giudicare il livello complessivo di ambizione, un passo preliminare fondamentale è osservare cos’è successo nel corso dell’ultimo anno, cioè dalla COP26 di Glasgow a oggi. La COP27 di Sharm el-Sheikh, infatti, viene chiamata anche “COP dell’implementazione” perché dovrebbe finalmente dare gambe alle decisioni contenute nel patto sul clima di Glasgow di novembre 2021.
Prendiamo in esame uno a uno i quattro capitoli principali su cui si gioca la riuscita o il fallimento del vertice di Sharm el-Sheikh: i contributi nazionali volontari (Nationally Determined Contributions, NDCs), il gap di emissioni rispetto all’obiettivo di 1,5°C, l’impegno per la finanza climatica, il destino dei sussidi fossili.
Pochi nuovi NDC alla COP27 di Sharm el-Sheikh
La COP27 inizia zoppa. L’anno scorso la Gran Bretagna, che organizzava il summit di Glasgow, ha fatto il gioco delle tre carte con gli impegni globali sulla mitigazione della crisi climatica. Siccome le promesse degli stati non bastavano neppure lontanamente a “tenere gli 1,5°C a portata di mano” (il mantra della COP26), Londra ha provato a estrarre dal cilindro una soluzione di ripiego, tanto semplice quanto fragile: quest’anno non ci arriviamo, ma tutti si devono impegnare a presentare obiettivi sul clima più ambiziosi già l’anno prossimo. Entro la COP27. Com’è andata?
Dato che si trattava di un impegno volontario, è quasi superfluo dire che pochissimi paesi hanno onorato la promessa contenuta nel patto sul clima di Glasgow. Per la precisione, 23 su 193. La data di scadenza per presentare i piani climatici aggiornati all’Unfccc, l’organo Onu per il contrasto del cambiamento climatico, era il 23 settembre. Ma di NDC nuovi se ne son visti pochi. Solo 23 dei quasi 200 paesi che partecipano al processo delle COP hanno “rivisto e rafforzato” i loro target sul clima.
Non solo: la maggior parte dei documenti presentati non migliora l’ambizione climatica, ma si limita a offrire più dettagli sulle politiche già annunciate in precedenza. I grandi inquinatori per primi hanno bucato la scadenza.
Sia la Cina sia gli Stati Uniti si sono ben guardati dal presentare nuovi contributi nazionali volontari. Se a Washington l’amministrazione Biden ha faticato non poco a far approvare al Congresso un pacchetto sulla transizione energetica (l’Inflation Reduction Act), Pechino sembra molto più cauta di un anno fa per il combinato disposto di crisi energetica, rallentamento dell’economia e timori delle ripercussioni della guerra in Ucraina.
Anche l’Unione Europea arriva alla COP27 di Sharm el-Sheikh a mani vuote, anche se probabilmente alzerà i target di riduzione delle emissioni al 2030 dal 55 al 57% nei prossimi mesi, recependo l’effetto dei pacchetti anti-crisi e per la sicurezza energetica come il Repower Eu.
Dalla rianimazione alla morte cerebrale
Qual è l’effetto complessivo dei nuovi NDC? Quasi nullo. Secondo l’Unep, l’agenzia dell’Onu per la protezione ambientale, i nuovi impegni hanno limato appena 0,5 mld t CO2 equivalente (Gt CO2e) dal budget di carbonio disponibile annualmente per avvicinarsi alla traiettoria degli 1,5 gradi. Il risultato? Il divario al 2030 con le due soglie di Parigi di 2 gradi e 1,5 gradi è, rispettivamente, di 15 e 23 Gt CO2e.
In altri termini, prima della COP26, i tagli alle emissioni promessi per il 2030 portavano il riscaldamento globale a +2,7°C. Con i nuovi impegni annunciati a Glasgow arriveremo a 2,4°C: quasi un grado sopra l’obiettivo di 1,5 gradi. Non è cambiato molto, anzi nulla, da allora. Con i nuovi NDC, sempre che siano implementati a regola d’arte, si arriva sempre solo a 2,4°C di riscaldamento globale (includendo gli NDC condizionali, cioè gli obiettivi che i paesi si impegnano a raggiungere solo se vengono prima soddisfatte alcune condizioni).
Se al conto si aggiunge l’impatto probabile delle promesse a lungo termine, come la neutralità di carbonio al 2050, che però non sono corredate di dettagli, obiettivi intermedi e politiche realistiche, si arriverebbe forse a 1,8°C. Ma, appunto, si tratta di una traiettoria che, ad oggi, resta poco verosimile guardando le politiche realmente implementate finora.
D’altronde secondo l’Iea, l’Agenzia internazionale per l’energia, le politiche attuali comportano un aumento del 10% delle emissioni di gas serra entro la fine di questo decennio, non una diminuzione. Per una traiettoria compatibile con gli 1,5 gradi servirebbe una sforbiciata del 45%.
Insomma, il tempo sembra aver dato ragione al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che aveva zittito il presidente britannico della COP26 Alok Sharma facendo notare che l’obiettivo degli 1,5 gradi sarà anche a portata di mano, ma è in rianimazione. Dodici mesi dopo e a giudicare dall’immobilismo della politica climatica internazionale, l’impressione è che dalla rianimazione siamo passati alla morte cerebrale.
Il nodo finanza climatica
Vediamo il terzo capitolo su cui si giocherà l’esito della COP27 di Sharm el-Sheikh, ovvero la finanza climatica. Qui, se possibile, il quadro è anche peggiore.
Nel 2009 i paesi ricchi avevano promesso 100 mld $ l’anno entro il 2020 ai paesi più colpiti dall’impatto del cambiamento climatico. Finora non hanno mantenuto la promessa. Con la COP26 si impegnavano a raggiungere la cifra nel 2023, ma non è detto che sarà facile raggiungere l’obiettivo. L’accordo di Glasgow invitava i paesi a raddoppiare la loro quota di finanza climatica già nel 2022 (ma sui livelli del 2019), cosa che non è successa in molti casi.
Nei negoziati preliminari alla COP27, poi, non sono stati fatti passi avanti su nodi cruciali come i Loss & Damage (perdite e danni) e sulla cifra da mobilitare nel periodo post 2025. Anzi, il primo tema, che consiste nel garantire fondi ai paesi più colpiti dalla crisi climatica da parte dei maggiori responsabili di emissioni storiche, è rientrato in agenda dalla finestra e solo dopo molte pressioni da parte dei paesi in via di sviluppo e meno sviluppati.
In ogni caso, le maggiori economie mondiali si continuano a rifiutare di creare già alla COP27 quel meccanismo per i Loss & Damage – previsto dall’accordo di Parigi – che renderebbe davvero operative le perdite e i danni. Tutto questo mentre gli ultimi 12 mesi hanno dato prova per l’ennesima volta di quanto il clima che cambia possa provocare devastazioni e infliggere sofferenza a tutte le latitudini, mettendo in ginocchio i paesi più vulnerabili.
Sussidi fossili, altro che phase down
Il testo del Patto sul clima di Glasgow chiedeva, per la prima volta dopo 26 conferenze sul clima, l’abbandono (phase out) dei sussidi fossili. All’ultimo minuto, durante la plenaria finale, l’India ha chiesto – e ottenuto – di cambiare il testo da phase out a phase down. Non cancellare bensì un più generico ridurre. Da allora cos’è successo?
Non abbiamo ancora i dati consolidati, ma quello che si intuisce finora è che la direzione presa a livello globale non sia quella promessa. Nel 2021, nei paesi Ocse i sussidi fossili sono praticamente raddoppiati, arrivando alla cifra di 700 milioni di dollari. Male il G20, che va in direzione opposta al phase down. Fra trasferimenti di bilancio e agevolazioni fiscali legate alla produzione e all’uso di carbone, petrolio, gas e altri prodotti petroliferi, i sussidi fossili nelle prime 20 economie mondiali sono lievitati da 147 a 190 mld in 12 mesi. E con l’invasione russa dell’Ucraina e gli shock energetici, le previsioni per il 2022 sono tutt’altro che rosee.
(lm)