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Oggi inizia la COP26 di Glasgow: tutti i dossier del vertice sul clima

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La COP26 si tiene in Scozia dal 31 ottobre al 12 novembre

(Rinnovabili.it) – L’ultimo rapporto dell’IPCC, il Panel intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu uscito ad agosto 2021, ha suonato l’allarme rosso per l’umanità. La crisi climatica sta accelerando: bisogna agire subito, con misure concrete ed efficaci, per evitare gli impatti peggiori del climate change e avere ancora una chance di contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5°C rispetto all’epoca preindustriale, cioè l’obiettivo più ambizioso dell’accordo di Parigi. È con questo senso di urgenza che inizia oggi la COP26, il vertice globale sul clima che quest’anno si tiene a Glasgow, organizzato dalla Gran Bretagna con il supporto dell’Italia.

Fino al 12 novembre circa 25.000 tra negoziatori e politici da 200 paesi, ong e attivisti si riuniscono nella città scozzese per portare un passo più avanti la diplomazia climatica mondiale. Dopo il rinvio di un anno a causa della pandemia di Covid-19, la COP26 sul clima è un appuntamento storico: in gioco ci sono la traiettoria (più o meno verde) della ripresa post-coronavirus, il rispetto dell’accordo di Parigi siglato nel 2015 durante la COP21 e le prospettive della transizione energetica a livello globale.

Quali sono gli obiettivi della COP26? Quali saranno i dossier più caldi sul tavolo del vertice sul clima? Quali sono le posizioni dei grandi inquinatori mondiali? Esploriamo punto per punto l’agenda di Glasgow e i nodi più delicati che saranno al centro dei negoziati.

Sir David Attenborough, COP26 People's Advocate

Agire subito contro la crisi climatica

“Ad ogni Paese chiediamo di presentare obiettivi ambiziosi di riduzione delle emissioni entro il 2030 che siano allineati con il raggiungimento di un sistema a zero emissioni nette entro la metà del secolo”. È questo l’obiettivo principale che campeggia in cima al sito della COP26. Gli organizzatori hanno raccolto l’appello della scienza del clima: c’è grande consenso tra gli scienziati sulla necessità di agire subito contro la crisi climatica per tenere in vita l’accordo di Parigi.

Secondo alcuni studi, come quello del Climate Council, anche se interveniamo adesso con drastici tagli alle emissioni, da qui al 2030 sforeremo comunque il target di 1,5°C, salvo rientrare al di sotto della soglia nel giro di qualche anno ma solo a patto di accelerare la transizione e anticipare al 2040 la data in cui raggiungeremo la neutralità climatica. Il rapporto dell’IPCC di agosto è sostanzialmente d’accordo: per avere una ragionevole probabilità (del 66%) di rispettare l’obiettivo più ambizioso dell’accordo di Parigi, possiamo emettere ancora 360 Gt di CO2. Ai ritmi attuali, le esauriremo nel 2030.

Il disaccordo sulla roadmap aleggia sulla COP26

Già su questo punto, le posizioni dei paesi sono molto distanti. Sono pochi, appena una quarantina, quelli che hanno indicato quando pensano di diventare net zero. La maggior parte punta al 2050, come l’UE, gli Stati Uniti o il Giappone. Pochi provano ad anticipare: lo ha promesso la Germania, che dopo una condanna del tribunale per inazione climatica ha fissato la nuova scadenza nel 2045. Il più grande inquinatore mondiale, la Cina, mira al 2060. L’India, terzo paese al mondo per emissioni di gas serra, si rifiuta di indicare una data e sostiene che è più importante quanta CO2 viene emessa nel percorso verso la neutralità climatica che la data in sé.

Ma i veri problemi iniziano con i piani dettagliati per tagliare le emissioni. Ogni paese, secondo l’accordo di Parigi, deve presentare i cosiddetti NDC, i contributi nazionali volontari, cioè un documento in cui si spiega di quanto sarà la riduzione e in che tempi. In teoria tutti avrebbero dovuto aggiornarli prima della COP26, e già su questo punto si è fallito. In più, non c’è accordo sulla frequenza con cui vanno aggiornati in futuro. È un punto fondamentale anche se sembra un dettaglio. Aggiornare i piani ogni 5 anni significa poter correggere la rotta più spesso e, soprattutto, obbligare i governi in carica ad agire subito. Aggiornarli ogni 10 anni, come molti preferirebbero, permette di rimandare “alla prossima legislatura” l’azione climatica o almeno le misure più importanti (che spesso sono quelle meno popolari e costano voti). L’UE vuole tempi uguali per tutti di 5 anni, mentre la Cina ritiene che ciascun paese dovrebbe essere libero di scegliere.

La finanza climatica spacca il vertice sul clima

Altro dossier caldissimo: la finanza climatica. Nel 2009, alla COP15 di Copenhagen, i paesi più ricchi avevano promesso di mobilitare almeno 100 mld di dollari l’anno per misure di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico per i paesi più svantaggiati. Non è successo: i dati OCSE dicono che siamo ancora a 80 mld, con le ultime promesse aggiuntive (quella dell’Italia inclusa) sfioriamo solo quota 90.

Perché è così importante la finanza per il clima? Perché sta spaccando letteralmente in due i negoziati e blocca il dialogo su molti altri dossier. I paesi più svantaggiati e quelli in via di sviluppo accusano i paesi più ricchi e di vecchia industrializzazione di non assumersi le loro responsabilità nella crisi climatica. Oggi tra i maggiori inquinatori ci sono Cina, India, Sudafrica, ma non sono loro ad avere la responsabilità storica del cambiamento climatico bensì i paesi con economie avanzate, che hanno iniziato a inquinare a metà ‘700. Se guardiamo le emissioni storiche, gli USA ne hanno prodotto il 20%, la Cina “solo” l’11%, mentre Brasile e Indonesia rispettivamente il 5% e il 4%. L’UE a 28 è invece responsabile del 22% delle emissioni storiche.

Per questa ragione, questi paesi – molti dei quali sono economie fortemente dipendenti dal carbone – chiedono non solo i 100 mld ma molti più soldi per sostenere il processo di transizione energetica e non subire danni e rallentamenti “ingiusti” alle loro economie. Molti dossier importanti della COP26, a partire appunto dal carbone, sono legati a doppio filo ai progressi che il vertice sul clima riuscirà a fare sulla finanza climatica.

Addio carbone, benvenuto mercato del carbonio globale

Il presidente della COP26, il britannico Alok Sharma, ripete da mesi che il vertice di Glasgow deve “consegnare il carbone alla storia”. Ma finora un accordo globale per l’abbandono graduale di questa fonte fossile sembra fuori portata. Neppure in sede di G7 (a causa dell’Australia) e di G20 (tra gli scettici, Cina e India) si è riusciti a strappare un impegno in questo senso nei comunicati finali. Queste resistenze potrebbero reggere anche alle pressioni internazionali più forti che ci saranno alla COP26. Senza un accordo su questo punto, il vertice sul clima inizierebbe a fare flop.

A compensare parzialmente uno scivolone potrebbe pensarci un accordo sulle emissioni di metano. USA e UE hanno lanciato una campagna che sta raccogliendo adesioni significative per tagliare del 30% le emissioni di CH4 entro il 2030. Un passo cruciale perché metà del riscaldamento globale cumulato finora dipende dal metano, non dalla CO2, e perché questo gas serra ha un potere climalterante 80 volte maggiore dell’anidride carbonica: un passaggio essenziale per avere risultati subito contro la crisi climatica. Al momento, la campagna “pesa” per il 60% del Pil mondiale e per il 30% delle emissioni di metano globali.

Dossier su cui si può verificare una svolta è anche quello della creazione di un mercato del carbonio globale. Si tratta di negoziare i dettagli dell’articolo 6 dell’accordo di Parigi, mettersi d’accordo su come evitare di conteggiare i crediti due volte, e di fissare le regole di base. Può essere un passo avanti, a patto che non serva solo per dilazionare la transizione sdoganando il principio del “se pago, posso inquinare”. Servono quindi tetti e meccanismi che aiutino a far calare le emissioni assolute.

Temi di importanza minore (perché non al centro dei negoziati della COP26) sono quelli della deforestazione, della maggiore penetrazione dei veicoli elettrici, e dell’incoraggiamento agli investimenti nelle energie rinnovabili. (lm)

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