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Di chi è la manina che ha cancellato il phase out del carbone alla COP26?

COP26, l’India accusa UE e USA: “Hanno riscritto loro la parte sul carbone”
crediti: COP26 via Flickr (CC BY-NC-ND 2.0)

All’ultimo secondo utile della COP26, l’India ha chiesto di diluire il linguaggio sul carbone

(Rinnovabili.it) – Non abbiamo azzoppato noi il patto sul clima di Glasgow: la manina che ha scritto “riduzione” invece di “abbandono” del carbone è europea e americana. Si difende così la delegazione indiana alla COP26, protagonista di un colpo di scena all’ultimo secondo. Durante la plenaria finale, il ministro indiano dell’Ambiente Bhupender Yadav ha chiesto – e ottenuto – di cambiare il testo già definitivo per salvare il carbone.

“L’hanno scritto Cina e USA”

“Il testo iniziale aveva “phase out” sia per il carbone che per i sussidi ai combustibili fossili, con cui non eravamo d’accordo”, spiegano dalla delegazione indiana. Avevano un problema con il linguaggio sul carbone e la graduale eliminazione dei sussidi per i combustibili fossili e hanno continuato a spingere fino alla fine per cambiarlo, ammettono. “Ma non abbiamo introdotto noi la frase ‘phase down’”.

Da dove arriva allora il phase down? L’India sostiene che arriva dal testo dell’accordo bilaterale tra Cina e Stati Uniti raggiunto il 10 novembre, poco prima della chiusura della COP26. Al punto 9, comma c dell’accordo, si legge: “La Cina ridurrà gradualmente [‘will phase down’] il consumo di carbone durante il 15° piano quinquennale e farà i migliori sforzi per accelerare questo lavoro”.

La Cina, come l’India e altri paesi fortemente dipendenti dal carbone, tra cui Australia, Indonesia e Sudafrica, era certamente contraria a un linguaggio troppo forte sul carbone. Però un conto sono i negoziati bilaterali, quello che decidono Pechino e Washington tra loro, un altro conto quello multilaterali della COP26. Chi ha portato la parola phase down in quel consesso?

Tinker, tailor, soldier, spy alla COP26

Il linguaggio finale del patto di Glasgow, spiegano ancora dalla delegazione indiana, “è stato sviluppato in seguito alle discussioni tra la presidenza britannica, gli Stati Uniti, la Cina, l’India e l’UE. Il presidente (Alok Sharma) deve guidare queste discussioni. E’ dovere del presidente guidare verso il consenso”. Questo lascia intendere che Alok Sharma, o direttamente, oppure raccogliendo un suggerimento di John Kerry, l’inviato USA sul clima, o del suo omologo cinese Xie Zhenhua, abbia proposto la nuova versione del testo. O è stata una mediazione dell’altrimenti evanescente Frans Timmermans? Tutti loro erano a confabulare fitto proprio nella giornata finale della COP26, poco prima della richiesta indiana. Visto il colpo di scena che preparavano, e l’accusa lanciata a summit chiuso da Sharma a Cina e India (“Dovranno spiegare il loro atteggiamento!”), è quasi una scena alla Le Carré.  

Ma l’India, si difendono i delegati, avrebbe solo “accettato gli emendamenti”. Una versione che dimentica settimane di lobbying forzato e la minaccia di far fallire la COP26, per scaricare la colpa su altri. “La ragione per cui abbiamo letto il testo è perché ci è stato chiesto dalla presidenza. Quando guardate gli atti, sentirete che questo è il linguaggio dell’India, ma noi abbiamo solo letto la dichiarazione. Stavamo cercando di aiutare a raggiungere un consenso”, si difendono ancora dall’India.

Se Nuova Delhi non pecca per trasparenza, anche sull’operato degli altri big c’è qualche ombra. Per quanto tempo hanno negoziato su questo punto? Per giorni, oppure solo nelle ore finali della COP26? Se è vero il secondo caso, UK, USA e UE non avrebbero potuto puntare i piedi invece di voler chiudere il vertice in fretta e con un accordo a tutti i costi? Forse uno dei problemi di fondo del summit di Glasgow è proprio che è l’Occidente, e non India o Cina, ad aver più bisogno di portare a casa un risultato tangibile per mandare messaggi chiari e rassicuranti a mercati ed elettorato. (lm)

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