Il procedimento si basa su un documento interno dell’azienda che proverebbe che Eni sarebbe stata a conoscenza da più di 50 anni dell’impatto delle fossili sul clima. In caso di condanna non si chiedono indennizzi economici, ma di adottare una strategia di compensazione per ridurre del 45% le emissioni entro il 2030, rispettando il Paris Agreement. Sono chiamati a risponderne anche il Ministero dell’Economia e la Cassa Depositi e Prestiti
Insieme a Eni, a processo anche il ministero dell’Economia e Cassa Depositi e Prestiti
(Rinnovabili.it) – L’Eni sapeva dal 1970 che le fonti fossili alterano il clima globale? Questa è la tesi con cui l’associazione ReCommon, insieme a Greenpeace Italia e a 12 privati cittadini hanno portato l’azienda di San Donato Milanese in tribunale. La vera notizia è che si tratta del primo contenzioso climatico contro una società di diritto privato.
Sotto la lente di ingrandimento finiscono anche il ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti per “l’influenza dominante che esercitano su ENI dalla fondazione ad oggi, per cui sono corresponsabili per le scelte aziendali compiute in tema di strategie energetico-climatiche e delle conseguenti emissioni di CO2 e di altri gas climalteranti”, sottolinea una nota di Greenpeace Italia. Il ministero e CDP, insieme, oggi controllano circa 1/3 delle azioni Eni.
“ENI è responsabile a livello globale di un volume di emissioni di gas serra superiore a quello dell’Italia intera e vogliamo che vengano accertati i danni provocati dalla sua attività e le violazioni di diritti umani fondamentali, quali il diritto alla vita, alla salute e a un ambiente salubre”, scrive ReCommon.
Come è nato il contenzioso climatico contro Eni
Su cosa si basa, precisamente, l’accusa mossa alla società del cane a sei zampe? Secondo le associazioni, Eni era a conoscenza dell’impatto della combustione delle fonti fossili sull’atmosfera e sul clima globale almeno dal 1970. Lo proverebbe un documento interno di cui sono venuti in possesso i fautori del processo a Eni.
Si tratta di uno studio commissionato da Eni al centro di ricerca ISVET (Istituto per gli Studi sullo Sviluppo Economico e il Progesso Tecnico), intitolato “L’intervento pubblico contro l’inquinamento. Valutazione dei costi e dei benefici economici connessi ad un progetto di eliminazione delle principali forme di inquinamento atmosferico ed idrico in Italia. Rapporto di sintesi” a cura di Gianni Scaiola.
Nel documento si riconoscerebbe che le emissioni che derivano dalla produzione e dall’utilizzo di fonti fossili possono portare a conseguenze “catastrofiche” per il clima. Nello specifico, il passaggio del rapporto di sintesi riporta le conclusioni di un rapporto ONU secondo cui la CO2 in atmosfera è aumentata nell’ultimo secolo del 10% in tutto il mondo “data l’accresciuta utilizzazione di olii combustibili minerali”, e che “verso il 2000 questo incremento potrebbe raggiungere il 25%, con conseguenze ‘catastrofiche’ sul clima”.
I precedenti
Per come è costruita l’accusa, il contenzioso climatico contro Eni ripercorre le orme di altri processi analoghi. In particolare, guarda a quello contro Shell per cui la compagnia anglo-olandese è stata condannata nel 2021 per disastro ambientale in Nigeria.
A sua volta, questo caso si basava su un precedente processo contro Vedanta Resources, in cui un tribunale inglese aveva condannato l’azienda estrattrice di rame per danni creati in Zambia. L’attivista che ha sostenuto il processo, Chilekwa Mumba, ha ricevuto quest’anno il Goldman Prize, il cosiddetto “Nobel per l’ambiente”.
Le richieste a Eni
Cosa vogliono ottenere ReCommon e Greenpeace Italia con il processo a Eni? “Chiediamo di accertare e dichiarare che ENI SPA, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa depositi e prestiti SPA sono responsabili nei confronti dei privati per danni alla salute, all’incolumità e alle proprietà, nonché per aver messo, e aver continuato a mettere, in pericolo gli stessi beni per effetto delle conseguenze del cambiamento climatico”, continua ReCommon.
La richiesta non è di quantificare i danni che sarebbero stati provocati all’ambiente, al clima e alla salute. Il tentativo è invece di spingere il giudice a imporre a Eni di adottare una strategia industriale che riduca le emissioni di gas serra dell’azienda del 45% entro il 2030, in linea con ciò che è giudicato necessario per rispettare l’Accordo di Parigi.