Uno studio apparso su Current Biology realizza la prima mappatura della biodiversità del quadrante più ricco di metalli sottomarini, la Clarion-Clipperton Zone. E trova più di 5000 specie marine totalmente sconosciute finora
Sappiamo ancora molto poco dei reali rischi del deep-sea mining
(Rinnovabili.it) – E’ il nuovo Eldorado che fa gola a chi vuole mettere le mani su terre rare, cobalto, nickel, litio e manganese. Ma estrarli significa interferire con un ecosistema di cui non sappiamo praticamente nulla. Con conseguenze che non possiamo ancora prevedere. Parliamo della Clarion-Clipperton Zone (CCZ), una immensa porzione di oceano Pacifico grande come l’intera Europa (Russia esclusa). Dove i rischi del deep-sea mining, l’attività di estrazione che potrebbe essere sdoganata il prossimo luglio, sono al centro di un braccio di ferro tra accademia e industria.
Mentre l’industria accelera con i test e fa pressioni sull’Isa, l’International Seabed Authority con sede in Giamaica che regola lo sfruttamento dei fondali oceanici, affinché dia luce verde allo sfruttamento delle miniere sottomarine, l’accademia prova a raccogliere prove dei rischi del deep-sea mining.
La corsa per studiare i rischi del deep-sea mining
L’ultima prova, forse la più incisiva, è stata pubblicata ieri sulla rivista Current Biology. Uno studio condotto dal Museo di storia naturale di Londra, dall’università di York e dal Centro nazionale per l’oceanografia di Southampton ha realizzato il primo censimento delle specie viventi nella Clarion-Clipperton Zone. Con un risultato straordinario: ha trovato oltre 5000 specie animali finora completamente sconosciute (solo di 6 di queste si sa che esistono anche in altre zone, ma non hanno ancora un nome scientifico). E ha stimato la biodiversità della regione in ben 6000-8000 specie.
“Ci sono specie straordinarie laggiù. Alcune spugne sembrano le classiche spugne da bagno, altre sembrano vasi. Sono semplicemente bellissime”, spiega Muriel Rabone, una degli autori dello studio. “Una delle mie preferite sono le spugne di vetro. Hanno queste piccole spine e, al microscopio, sembrano piccoli lampadari o piccole sculture”.
Inevitabilmente, avviare l’estrazione di minerali dai noduli polimetallici che si trovano in abbondanza sui fondali della CCZ interferisce con queste specie in modi e con esiti che non sappiamo prevedere. “Condividiamo questo pianeta con tutta questa straordinaria biodiversità e abbiamo la responsabilità di comprenderla e proteggerla”, ha aggiunto Rabone.
Prima di poter capire in concreto quali sono i reali rischi del deep-sea mining servono altri studi. “La quantificazione accurata degli areali e della rarità delle specie, componenti fondamentali del rischio di estinzione, richiede un approccio globale alla tassonomia, studi molecolari approfonditi, e metodi quantitativi standardizzati che consentano analisi regionali”, ricordano gli autori nelle conclusioni dello studio. “Ciò è particolarmente importante se si considera che la CCZ rimane una delle poche aree dell’oceano globale con un’elevata integrità della natura selvaggia. Dati e conoscenze solide sono essenziali per far luce su questa regione unica e garantire la sua futura protezione dagli impatti umani”.