Gli scenari più ottimisti richiedono ritmi implausibili di chiusura delle centrali a carbone
(Rinnovabili.it) – La chiusura delle centrali a carbone procede troppo a rilento: di questo passo, il riscaldamento globale è sulla traiettoria di 2,5-3°C a fine secolo e svanisce ogni chance realistica di restare sotto la soglia dei 2 gradi. È quanto emerge da uno studio della Chalmers University of Technology e della Lund University pubblicato su Environmental Research Letters.
Sulla chiusura delle centrali a carbone, gli impegni non bastano
I ricercatori hanno passato al vaglio le promesse e i piani di chiusura delle centrali a carbone di 72 paesi nel periodo 2022-2050 (che toglierebbero dall’atmosfera appena 4,8 Gt CO2eq al 2050). Il primo risultato è poco confortante. In linea puramente teorica è ancora possibile rispettare l’accordo di Parigi. Ma richiederebbe un phase out del carbone a ritmi così alti che è ben poco plausibile che si avveri.
Per avere qualche possibilità di stare sotto i 2°C, Cina e India dovrebbero iniziare a chiudere impianti (senza rimpiazzarli) entro 5 anni al massimo. Secondo E3G, la pipeline di progetti della sola Cina arriva a 250 nuovi GW. Solo nel 2022, la capacità aggiuntiva pianificata da Pechino è arrivata a 126 GW. È un ritmo inverosimile per questi paesi: dovrebbe essere rapido come quello della Gran Bretagna, il paese con i migliori risultati tra le massime economie mondiali.
Implausibile anche perché le promesse degli oltre 70 paesi analizzati sono tutte molto simili tra di loro e non accelerano affatto il ritmo del phase out rispetto alla media storica di ciascuno stato. La stessa velocità degli anni passati viene applicata anche oggi, nonostante la crisi climatica sia più pressante.
“Sempre più Paesi promettono di eliminare gradualmente il carbone dai loro sistemi energetici, il che è positivo. Ma purtroppo i loro impegni non sono abbastanza forti. Se vogliamo avere una possibilità realistica di raggiungere l’obiettivo dei 2 gradi, l’eliminazione del carbone deve avvenire più rapidamente”, sottolinea Aleh Cherp, professore presso l’International Institute for Industrial Environmental Economics della Lund University.