Superata la ritrosia di Cipro ed Ungheria, i Ventisette sono pronti ad abbandonare il Trattato ma solo dopo aver approvato una serie di riforme alla Carta
Carta dell’energia, il Blocco è pronta a “stracciarla”
(Rinnovabili.it) – Finalmente c’è l’intesa. Secondo quanto riferito dalla Reuters, tutti e ventisette gli Stati membri dell’Unione sarebbero d’accordo ad uscire dal Trattato sulla Carta dell’Energia, il celebre accordo multilaterale per la cooperazione nel settore energetico. Che l’abbandono fosse l’unica strada possibile era diventato chiaro fin dall’inizio del 2023, quando la Commissione Europea aveva accantonato l’idea di riforma, definendo l’addio “inevitabile”.
Ma i differenti interessi interni al Blocco hanno sempre reso impossibile un’azione condivisa in questo campo. Prima del 2023 Francia, Germania, Paesi Bassi, Polonia e Spagna avevano rispedito al mittente qualsiasi proposta di modifica, premendo per un’uscita immediata dal Trattato. Fino ieri, invece, pesavano posizioni di Paesi come Ungheria Cipro, desiderose di rimanere nell’accordo, e di altre nazioni che volevano poter prima far approvare alcune modifiche e poi concordare l’uscita. E dal momento che l’operazione di addio richiede un voto a maggioranza qualificata all’interno del Consiglio, è sempre mancato l’appoggio. Almeno fino a questi giorni quando la Commissione europea ha trovato una proposta che accontentasse tutti.
Ma qual è il problema? Perché restare o uscire può fare una così grande differenza per l’Unione? E soprattutto per quale motivo alcuni paesi volevano riformare lo strumento e poi abbandonarlo? La questione è semplice e complessa allo stesso tempo.
Il Trattato sulla Carta dell’Energia minaccia la transizione verde
L’Energy Charter Treaty (ETC) è un accordo internazionale creato nei primi anni ’90 con l’obiettivo di favorire la cooperazione transfrontaliera nel settore energetico, soprattutto a livello dei combustibili. Lo strumento conta circa 50 firmatari, compresi gli Stati membri dell’UE che lo avevano ratificato con l’obiettivo di rafforzare la propria sicurezza e garantire un approvvigionamento continuo di risorse dall’Est all’Ovest. Ma negli anni sono emersi diversi limiti penalizzanti per i governi, limiti che oggi costituiscono un ostacolo alla transizione energetica.
Il punto forte della Carta e al contempo la sua più grande criticità, risiede nella clausola sulla risoluzione delle controversie in materia di investimenti e stato (ISDS o Investor-State-Dispute-Settlement). Tale clausola tutela gli investimenti delle imprese da politiche nazionali teoricamente lesive dei loro interessi, consentendo loro l’accesso ad arbitrati privati. Politiche come quelle legate alla decarbonizzazione energetica. In altre parole le multinazionali che hanno investito nella produzione energetica fossile, possono citare in giudizio i governi per la perdita di profitto in caso di nuove norme o leggi che favoriscano la transizione ecologica.
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Un Energy Charter Treaty è (quasi) per sempre
Ma abbandonare la Carta dell’Energia non è realmente una soluzione. Per lo meno non nell’immediato. Il sistema possiede un ulteriore cavillo, la cosiddetta clausola di caducità che consente alle aziende di intentare causa per 20 anni dopo l’abbandono di un membro. Lo sa bene l’Italia che all’ETC ha detto addio nel 2016 ma è stata portata in tribunale (dove ha perso) nel 2022.
Ecco spiegato perché alcuni paesi premessero per ritoccare l’ETC prima dell’addio. Lo scorso anno i firmatari del trattato avevano approvato alcune modifiche essenziali che tuttavia oggi hanno poche possibilità di entrare in vigore senza il via libera dell’UE. Una di queste è la riduzione a 10 anni da 20 del periodo in cui le imprese energetiche di paesi terzi firmatari beneficerebbero della protezione degli investimenti esistenti nel Blocco. La Commissione europea ha quindi proposto che prima di uscire prima di uscire, i Paesi dell’Unione consentano l’approvazione delle riforme, sbloccando l’accordo interno ai Ventisette.