I fondali di pertinenza della Gran Bretagna valgono 300 miliardi di dollari. Il calcolo fa perno sui servizi ecosistemici che sono in grado di fornire: soprattutto come serbatoi di carbonio (blue carbon)
Capitale naturale e servizi ecosistemici al centro del lavoro dell’Istat britannico
(Rinnovabili.it) – I fondali marini della Gran Bretagna ‘rendono’ di più senza trivelle. Il valore del petrolio e del gas che si potrebbero estrarre è minore di quello della capacità di assorbire e stoccare l’anidride carbonica. A dirlo è l’Office for National Statistics, l’equivalente britannico dell’Istat. Che ha integrato nei suoi calcoli anche il capitale naturale.
Tutto ruota attorno a quelli che vengono chiamati ‘servizi ecosistemici’, cioè i costi e i benefici che derivano dalla tutela e dallo sfruttamento della natura. Secondo i tecnici di Londra, gli asset nazionali del capitale naturale marino – cioè i fondali – valgono 300 miliardi di dollari.
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Come sono arrivati a questa stima? Il calcolo mette il valore dell’oil&gas a confronto con il blue carbon, cioè la capacità degli ecosistemi marini di assorbire anidride carbonica e quindi di contrastare l’avanzata del cambiamento climatico. Secondo gli esperti britannici, le alghe, i fanghi, le sabbie e le paludi salmastre catturano già almeno 10,5 milioni di tonnellate di CO2 equivalente all’anno. Di poco, ma questo valore supera quello di tutti i boschi del Regno Unito.
Non solo. Per gli statistici gli asset di carbonio blu inglesi valgono addirittura più della pesca, degli idrocarburi e delle energie rinnovabili combinate insieme. Un valore che è destinato a salire, visto che Londra ha in mente di iniettare artificialmente CO2 nei fondali.
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Un recente studio dell’università di Cambridge concludeva che quando si tiene conto del capitale naturale è decisamente più conveniente preservare gli ecosistemi invece che favorirne lo sfruttamento. Punto che è al centro anche della ‘Dasgupta review’, rapporto commissionato dal ministero britannico delle Finanze che propone di correggere il PIL, includendo nell’indicatore macroeconomico anche il capitale naturale.
E su questa stessa linea si sta muovendo anche l’ONU, che prova a costruire e diffondere un PIL verde come indicatore macroeconomico. A metà marzo il Palazzo di Vetro ha presentato ufficialmente il System of Environmental-Economic Accounting—Ecosystem Accounting (SEEA EA), un indicatore economico che integra anche i servizi ecosistemici.