Rinnovabili

Amazzonia: la deforestazione selvaggia non conosce lockdown

deforestazione selvaggia amazzonia
Credits: Pedro Biondi/ABr – https://www.agenciabrasil.gov.br/media/imagens/2007/08/12/1637pb119.jpg/view, CC BY 3.0 br, Collegamento

Così l’Europa rischia di sacrificare l’Amazzonia sull’altare del commercio internazionale

di Francesco Panié

(Rinnovabili.it) – Mentre la pandemia di Covid-19 continua a mietere vittime in Brasile – secondo paese al mondo per contagi con oltre 500 mila casi ad oggi – l’Amazzonia è già tornata teatro di deforestazione selvaggia. I nuovi dati rilasciati dall’Istituto nazionale per la ricerca spaziale brasiliano (INPE) ad aprile, basati sulle analisi del sistema satellitare dedicato Deter-B, hanno rivelato un aumento record (+51%) del disboscamento fra gennaio e marzo rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Significa che nel primo trimestre 2020, mentre il paese era colpito dalla crisi sanitaria, i taglialegna intensificavano le attività

Sono circa 796 kmq in più quelli andati in fumo (80 mila campi da calcio): un trend che preoccupa se rapportato al 2019, annus horribilis per i roghi forestali, che ha registrato la perdita di 9.762 kmq di foresta contro i 4.571 del 2012, con un aumento degli incendi dell’84% rispetto al 2018. 

La foresta amazzonica ospita 40 mila specie di piante, 2,5 milioni di specie di insetti, 2 mila specie di mammiferi e uccelli e sequestra il 9% del carbonio globale.

Dopo la levata di scudi della comunità internazionale della scorsa estate contro le politiche lassiste del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, il tema è uscito dalle cronache di molti media. Ma a livello istituzionale in Europa crescono le preoccupazioni per il contributo del vecchio continente al degrado della foresta Amazzonica. Un nuovo rapporto richiesto dalla Commissione Ambiente del Parlamento europeo al centro studi dell’Eurocamera pone l’accento sull’impatto dell’accordo commerciale UE-Mercosur, un patto siglato il giugno scorso che – se ratificato – intensificherà lo scambio di prodotti ad alto rischio di deforestazione fra Unione europea e paesi del mercato comune sudamericano (Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay). 

La Commissione europea difende l’accordo, visto come un’opportunità per l’Europa di promuovere un nuovo tipo di politica commerciale che includa disposizioni sui diritti umani, dei lavoratori, delle popolazioni native e dell’ambiente. La realtà è che Bruxelles ha firmato un testo senza vincoli reali per esercitare questo ruolo moralizzatore nei confronti dei paesi del Mercosur e del Brasile in particolare: nessuna sanzione è prevista in caso di violazioni del capitolo sullo sviluppo sostenibile, in cui i due blocchi si impegnano a dare attuazione all’accordo di Parigi e alle convenzioni internazionali sull’ambiente. 

Inoltre, la stessa Unione europea ha fallito finora nell’applicare le sue norme sulla deforestazione importata. Anche se la legislazione comunitaria prevede una due diligence nelle filiere del legname e dell’olio di soia, infatti, le imprese europee sono lente nel rendere noti i progressi. Nel 2019, il 70% delle 1.800 aziende interrogate dal Carbon Disclosure Programme (CDP Europe) non ha saputo dare informazioni sulle iniziative intraprese per eliminare la deforestazione dalla filiera.

Le norme che regolano il flusso di materie prime forestali per evitare approvvigionamenti figli di pratiche insostenibili, sono armi spuntate. Le sanzioni sono rarissime e le autorità europee preferiscono ammonire le imprese che compiono illeciti piuttosto che multarle. Dall’altro capo dell’oceano, il Brasile ha sostanzialmente svuotato il sistema di certificazione dell’origine forestale, con le autorità libere di emettere autorizzazioni all’export retroattive quando nei porti di destinazione viene bloccato un carico sospetto.

In questo contesto, l’accordo commerciale UE-Mercosur aggiunge benzina sul fuoco, perché abbatterà dazi, regole e controlli sulle importazioni di una gamma di beni ad altissimo impatto ambientale e climatico: sul fronte europeo, il calo delle tariffe metterà il turbo alla produzione di auto e parti di auto, specialmente di fabbricazione tedesca. Migliaia di mezzi inquinanti prenderanno la via dell’America latina attraversando l’oceano. Il blocco sudamericano ha invece ottenuto l’azzeramento di dazi e tariffe sull’82% dell’export agricolo, mentre il resto delle importazioni sarà soggetto a parziale liberalizzazione, con un aumento delle quote per i prodotti come carne bovina, pollame, maiale, zucchero, etanolo, riso, miele e mais.

Le implicazioni climatiche di un tale aumento delle importazioni, secondo un’analisi di Grain, risulterebbero in emissioni addizionali dell’82% per la carne bovina e del 6% per il pollame. Le emissioni legate al commercio degli 8 prodotti agricoli più scambiati fra i due blocchi dovrebbero salire del 34% (da 25,5 a 34,2 milioni di tonnellate di CO2eq). L’abbattimento dei dazi favorirà inoltre le esportazioni di soia dal Mercosur, che già oggi fornisce all’UE il 90% della farina ricavata da questo legume (oltre 14 milioni di tonnellate) utilizzato nella mangimistica.

Il dossier messo a punto per la Commissione Ambiente del Parlamento europeo è spinoso e destinato a riaccendere la discussione sull’opportunità o meno di ratificare il trattato. Dal documento emergono le responsabilità di un esecutivo comunitario, quello guidato da Ursula von der Leyen, che aveva scommesso tutto su una nuova agenda green per l’Europa. Tuttavia, sui tavoli decisionali del commercio internazionale le priorità sono diverse e confliggono con quelle elencate nel green deal. L’accordo UE-Mercosur può rappresentare una minaccia per l’Amazzonia e per la cooperazione globale sulla transizione ecologica, a meno che non vengano posti dei paletti così chiari da impedire che tutte le merci scambiate siano legate allo sfruttamento ambientale e alle violazioni dei diritti. Ad oggi, tuttavia, queste limitazioni non sono concrete.

Exit mobile version