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I venture capitalist italiani non investono in start up impegnate sul clima

Dal 2015 al 2020 sono state appena 13 le imprese con queste caratteristiche che hanno ottenuto finanziamenti, su un totale di 1.195, per 36,8 milioni di euro su 2.458. Osservatorio Climate Finance - School of Management Politecnico di Milano: “I privati non vedono convenienza nel supportare aziende che hanno bisogno di un arco temporale lungo per dare risultati”

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In Italia i venture capitalist non investono in start up impegnate nella mitigazione del cambiamento climatico e nella riduzione delle emissioni. Secondo un’analisi dell’Osservatorio Climate Finance della School of Management del Politecnico di Milano, dal 2015 al 2020 sono state appena 13 le start up di questo tipo – concentrate nelle soluzioni per energie rinnovabili, materiali avanzati e nella mobilità sostenibile – che hanno ricevuto finanziamenti da VC italiani, su un totale di 1.195 imprese selezionate, per un volume di raccolta pari a 36,8 milioni di euro su 2.458 (la punta minima nel 2020, con appena 400.000 euro investiti, la massima nel 2018, con 18,4 milioni). Eppure il mercato del venture capital nostrano non è certamente in crisi, anzi cresce di anno in anno (nel 2021 si è superato il miliardo di investimenti), ma preferisce concentrarsi sulla digitalizzazione e i servizi web, oppure sul biotech e il nanotech, dove identifica e sceglie le iniziative più promettenti e le aiuta a svilupparsi, invece che su aziende impegnate a misurare, gestire e mitigare gli impatti dei cambiamenti climatici.

“Non ci aspettavamo cifre così basse – ammette Roberto Bianchini, direttore dell’Osservatorio Climate Finance della School of Management del Politecnico di Milano, che studia appunto l’impatto del rischio climatico sulle aziende -. Nonostante gli allarmi continui sulle ripercussioni anche economiche dei cambiamenti climatici, gli investitori privati non vedono una convenienza nel finanziare imprese che per dare risultati hanno bisogno di un arco temporale molto lungo, anche superiore ai 10 anni.  Sono rari i fondi con questo orizzonte d’investimento. Inoltre, le start up che sviluppano tecnologie o soluzioni per – ad esempio – ridurre le emissioni, recuperare materiali, potenziare le fonti rinnovabili di energia, abbassare le temperature realizzano un beneficio per la collettività che non sempre è possibile monetizzare per un investitore un privato”.

Anche per questo, dunque, la parte del leone ancora la gioca l’investitore pubblico, soprattutto a livello europeo: nel programma Horizon 2020, ben il 24,4% dei progetti su cui ha investito la Comunità Europea riguardano la mitigazione del cambiamento climatico, per un totale di 20,8 miliardi di euro che rappresentano però il 30,5% dei finanziamenti totali, con un supporto medio per ciascuna iniziativa più alto (2,4 milioni contro 1,7). Anche l’Italia ne ha beneficiato: 1,7 miliardi sono andati a progetti il cui soggetto coordinatore è italiano, e altri 11 a cordate con almeno un player italiano. A livello europeo, però, sono molto più coinvolti anche i soggetti privati: il 60% dei progetti cleantech, cioè che riducono l’impatto ambientale, vede la partecipazione di almeno una impresa (contro il 39% di quelli non cleantech) e nei consorzi le aziende rappresentano il 43% dei partecipanti, quasi il doppio della media (25%).

E la finanza alternativa? Iniziative di crowdfunding possono avere un ruolo in questo contesto? “Al momento, sembra che questa fonte di finanziamento non possa rappresentare una soluzione strutturale – commenta Vincenzo Butticè, vicedirettore dell’Osservatorio -: finora i dati dimostrano che le campagne ‘verdi’ hanno meno probabilità di avere successo rispetto alle altre, soprattutto quando vengono lanciate da Paesi in cui le istituzioni sono meno orientate alla sostenibilità ambientale”.