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La COP28 lascia l’uscita dalle fossili senza la finanza climatica necessaria

Al di là dell’approvazione del Fondo Perdite e Danni, la conferenza di Dubai non ha raggiunto altri risultati concreti sui tanti dossier aperti che riguardano le risorse finanziarie da mobilitare per rendere possibile e giusta la transizione dalle fonti fossili. Ecco i nodi principali, le posizioni delle parti ai negoziati e cosa aspettarsi dalla prossima COP di Baku

Finanza climatica: tutti i passi avanti della COP28
Foto di Markus Spiske su Unsplash

Tutte le decisioni prese dalla COP28 di Dubai sulla finanza per il clima

(Rinnovabili.it) – La COP28 ha deciso la transizione dai combustibili fossili. Ma con quali soldi il mondo riuscirà a dire addio a carbone, petrolio e gas? Senza finanza climatica, la transizione resterà incagliata: è come avere un’auto a cui mancano le ruote. Per questo, il tema della climate finance ha accompagnato gran parte delle discussioni alla conferenza di Dubai. Con pochi risultati concreti – l’approvazione del Fondo Perdite e Danni (Loss & Damage Fund) già durante la 1° plenaria il 30 novembre – ma molto lavoro importante dietro le quinte.

Di cosa parliamo, esattamente, quando parliamo di finanza climatica? Il processo delle COP sta affrontando questo tema seguendo diversi filoni:

  • l’obiettivo dei 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020 e fino al 2025;
  • l’obiettivo sulla finanza per il clima per il post 2025, chiamato anche New Collective Quantified Goal (NCQG, Nuovo Obiettivo Collettivo Quantificato);
  • il meccanismo di riparazione per le perdite e i danni causati dalla crisi climatica ai paesi più vulnerabili;
  • l’architettura e le regole della climate finance a lungo termine, inclusa la definizione precisa di finanza climatica;
  • la mobilitazione di flussi finanziari da privati e tramite le grandi istituzioni multilaterali, le banche multilaterali di sviluppo (come la Banca Mondiale, l’Asian Development Bank, l’African Development Bank, l’Inter-American Development Bank o la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo).

Obiettivo 2020 sulla finanza climatica

Parte della discussione alla COP28 di Dubai si è concentrata attorno all’obiettivo dei 100 miliardi di dollari l’anno che i paesi più ricchi avrebbero dovuto raggiungere entro il 2020, e garantire fino al 2025, come stabilito nel 2009 alla COP15 di Copenhagen. Gran parte di questi flussi passano sotto forma di aiuti allo sviluppo, sia come aiuti a fondo perduto sia, più spesso, come prestiti.

Il volume di finanza mobilitata, quell’anno, era ben lontano da quota 100. Secondo la più recente stima dell’OCSE, “probabilmente” il traguardo è stato finalmente raggiunto nel 2022. Ma il documento finale della COP28 sulla finanza a lungo termine, in cui si fa il punto sull’obiettivo dei 100 mld $, nota che esistono diverse stime a riguardo.

A quella dell’OCSE si affiancano quelle fornite dai singoli paesi donatori (che tendono a gonfiare i loro contributi) e quella elaborata da Oxfam, che non conteggia gran parte della finanza in forma di prestito. Secondo l’ultimo “rapporto ombra” della ONG, pubblicato quest’anno, nel 2020 la finanza realmente diretta all’azione climatica arrivava appena a 21-24,5 mld $, mentre le stime OCSE la fissavano a 83,3 mld $.

Perché queste differenze? Il motivo è che non esiste una definizione formale e condivisa di cosa sia la finanza climatica, quali forme di finanziamento possano essere usate (grant / loan), e verso che tipo di progetti possano essere dirette. Oggi il panorama della climate finance è il far west: basti pensare che l’Italia ha conteggiato come finanza per il clima il supporto dato all’azienda di cioccolato Venchi per espandersi in diversi paesi asiatici, rivelava un’inchiesta di Reuters lo scorso giugno.

Ad ogni modo, i paesi in via di sviluppo hanno fatto pressione per indicare i ritardi dei paesi più ricchi. Anche nella speranza di riuscire a recuperare i circa 27 mld $ che non sono stati elargiti nel 2020-21.

Cosa succede dopo il 2025?

Alla COP21 di Parigi si è deciso di prolungare l’obiettivo 2020 di 5 anni. Ma cosa succede dopo il 2025? È il tema su cui il processo delle COP discute da anni. I negoziati devono arrivare a un’intesa entro il 2024: la COP29 di Baku, in Azerbaijan, sarà probabilmente la COP della finanza climatica.

A Dubai, intanto, il lavoro è proseguito, pur senza mettere nessun punto fermo. Da gennaio si inizierà a stendere il testo della decisione finale da approvare alla COP29, ma restano alcuni nodi davvero incandescenti. Il primo riguarda quanto denaro bisogna mobilitare, il secondo chi lo deve sborsare e chi è titolato a riceverlo.

Sull’ammontare, il New Collective Quantified Goal, esiste un punto di riferimento. È l’High-Level Expert Group on Climate Finance, un gruppo di lavoro composto da esperti indipendenti e incaricato di lavorare sui dettagli tecnici fornendo indicazioni all’UNFCCC (la Convenzione Quadro dell’ONU sul Cambiamento Climatico, che gestisce il processo delle COP) e indirizzando i negoziati. Il gruppo di esperti ha presentato alla COP28 di Dubai una prima stima: entro il 2030 servono 2.400 mld $ di investimenti ogni anno, da concentrare soprattutto nei mercati emergenti e nei paesi in via di sviluppo. Una cifra 24 volte più alta di quella mobilitata, già con estrema fatica, fino ad ora dai paesi più ricchi.

Anche per questo, i paesi donatori stanno provando a cambiare le regole del gioco. Oggi le regole sono quelle decise all’inizio degli anni ’90 e dividono i 200 paesi che partecipano ai negoziati sul clima in due gruppi: paesi ricchi e paesi in via di sviluppo. I criteri con cui sono definiti, però, rispecchiano la situazione di queste economie 30 anni fa, non quella attuale. L’economia della Cina, per fare un esempio, in 3 decenni è cresciuta di 50 volte da 360 a 18mila mld $. Così come molti paesi del Golfo oggi hanno un pil da economie avanzate.

La partita si gioca sia sull’obiettivo post 2025, sia sul Fondo Perdite e Danni. I paesi ricchi vogliono allargare la platea dei donatori includendo anche (tra gli altri) Pechino e le petrolmonarchie del Golfo, riducendo al contempo il numero dei paesi beneficiari. Al contrario, i paesi in via di sviluppo vogliono mantenere le regole degli anni ’90 e si richiamano soprattutto alle responsabilità storiche dei paesi di lunga industrializzazione nell’aggravare la crisi climatica. La Cina, dal canto suo, propone che eventuali contributi dai paesi in via di sviluppo siano previsti ma solo a titolo volontario.

La COP28 ha approvato il Fondo Perdite e Danni (ma solo fino al 2026)

Il braccio di ferro su questo punto ha frenato per mesi, nel 2023, i negoziati preliminari per rendere operativo il Fondo Perdite e Danni istituito dalla COP27 di Sharm el-Sheikh l’anno scorso. Il vertice in Egitto stabiliva che il Fondo dovesse partire già dal 2024. E così sarà. Ma con regole provvisorie, tutte da rivedere nel 2026: è questa l’intesa raggiunta a Dubai.

Per il momento, quindi, il Fondo sarà ospitato dalla Banca Mondiale. Scelta che non piace a Cina e paesi in via di sviluppo, perché sono gli Stati Uniti a tenere le redini della World Bank. Fra 3 anni la governance del Fondo Loss & Damage tornerà in discussione e potrebbe passare sotto l’egida dell’UNFCCC, considerata più indipendente.

In questo periodo di transizione, comunque, non è chiaro chi debba contribuire e chi ricevere i fondi, né quante risorse vadano mobilitate. La decisione presa alla COP28 sul Fondo Perdite e Danni si limita a “sollecitare” (urge) i paesi sviluppati a contribuire al Fondo e a “incoraggiare” (encourage) gli altri paesi a fornire denaro in modo volontario.

Ma ci sono contraddizioni nel testo. Al punto 20.c stabilisce anche che tutti i paesi in via di sviluppo possano accedere direttamente alle risorse, mentre nell’Annex I usa una formulazione più ristretta: l’obiettivo del Fondo è assistere “i paesi in via di sviluppo che sono particolarmente vulnerabili agli effetti avversi dei cambiamenti climatici” nel rispondere alle perdite e ai danni economici e non economici associati agli effetti avversi dei cambiamenti climatici, compresi gli eventi meteorologici estremi e gli eventi a insorgenza lenta (come l’aumento del livello dei mari). Come siano definiti i paesi “particolarmente vulnerabili” (espressione fortemente voluta dall’UE già l’anno scorso a Sharm) non è specificato.

Verso regole chiare e (forse) riforme strutturali

È chiaro che un supporto effettivo ed efficace della finanza climatica può essere garantito solo se esistono regole chiare e valide per tutti, come stabilito dall’articolo 21c dell’Accordo di Parigi. I lavori sulla definizione precisa di climate finance sono proseguiti alla COP28 e a Baku si dovrebbe discutere del dossier a partire dalle raccomandazioni dello Standing Committee on Finance dell’UNFCCC. Così come lo stesso organo dovrebbe fornire indicazioni su cosa contare e cosa no sotto l’etichetta di finanza per il clima.

In parallelo, i negoziati di Dubai hanno continuato il lento lavoro di integrazione della finanza privata e mutilaterale nell’architettura della finanza climatica prevista dal processo delle COP. Due i filoni principali. Il primo riguarda l’apporto delle banche multilaterali di sviluppo e una loro riforma per permettere di mobilitare più risorse dedicate al contrasto della crisi climatica. L’altro concerne una riforma strutturale dell’architettura finanziaria globale, con lo stesso obiettivo. È incardinata sulla Bridgetown Initiative proposta da Barbados. Tra le altre proposte in discussione per moltiplicare le risorse che è possibile mobilitare, si sta valutando di introdurre una tassa globale sui settori a più alto tasso di emissioni.