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La Corporate Sustainability Due Diligence Directive è quasi realtà: ma siamo pronti?

Corporate Sustainability Due Diligence Directive
via Depositphotos

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di Paolo Peroni e Kiara Leone, Rödl & Partner 

E’ attesa per il prossimo 24 aprile la votazione in sessione plenaria del Parlamento Europeo sulla Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD), l’oramai ben nota Direttiva sugli obblighi di diligenza in materia di sostenibilità delle imprese. Il testo condiviso lo scorso 15 marzo dai Rappresentanti permanenti degli Stati membri in seno al COREPER, se approvato e pubblicato in Gazzetta, rappresenterà un punto di svolta, probabilmente l’intervento legislativo più radicale e dirompente – tanto da ingenerare non pochi dubbi e resistenze – nell’ambizioso programma europeo di transizione verso un futuro (più) sostenibile. 

Dal dire al fare

Se la Direttiva CSRD – già in vigore dal 2022 e in attesa di essere recepita in Italia – pone degli obblighi di rendicontazione societaria di sostenibilità (lasciando quindi agli operatori la libertà di definire le proprie politiche ESG, salvo doverle rappresentare nei bilanci in modo veritiero, intellegibile e conforme a standard di rendicontazione omogenei e comparabili), l’oramai imminente CSDDD va molto oltre. La Corporate Sustainability Due Diligence Directive introduce infatti dei doveri di diligenza in forza dei quali le imprese interessate saranno chiamate a valutare, prevenire, eliminare o quanto meno ridurre tutti gli impatti negativi effettivi e potenziali sui diritti umani e sull’ambiente generati dalle proprie attività, dalle attività delle proprie controllate e dei partner operanti nelle proprie catene di valore. Non basta: la proposta di Direttiva CSDDD, se sarà approvata, comporterà l’obbligo di adottare e attuare un piano di transizione industriale per la mitigazione dei cambiamenti climatici che miri a garantire la compatibilità del modello di business con la transizione verso un’economia sostenibile e con la limitazione del riscaldamento globale a 1,5° C.

Ma sono solo buoni propositi? 

Niente affatto. Le imprese interessate saranno obbligatoriamente tenute a identificare e valutare gli impatti negativi effettivi o potenziali delle proprie attività e delle attività lungo l’intera catena del valore, stabilendo un ordine di priorità, prevenendo gli impatti potenziali, ponendo fine agli impatti negativi (o riducendone il più possibile la portata). Le società dovranno quindi elaborare e implementare soluzioni di rimedio a favore degli stakeholder interessati dagli impatti negativi, istituendo dei meccanismi di notifica e procedure di reclamo che consentano l’emersione e risoluzione di istanze di tutela e protezione da parte di tutti gli stakeholder potenzialmente impattati dall’attività di impresa. Whistleblowing 2.0, insomma. 

L’obiettivo più sfidante? L’integrazione dei doveri di diligenza ESG nelle politiche aziendali e nei sistemi di gestione e controllo

Le società dovranno compiere un enorme sforzo ricognitivo e organizzativo per integrare gli obblighi di dovuta diligenza nelle proprie politiche e nei sistemi di gestione del rischio e controllo. Si tratta di un cambio di paradigma epocale per la corporate governance e i modelli organizzativi delle imprese. Le politiche di due diligence di sostenibilità – si legge nella proposta di Direttiva – dovranno essere sviluppate in consultazione preventiva con l’azienda, i dipendenti e i loro rappresentanti. Dovranno prevedere una descrizione dell’approccio alla due diligence, anche a lungo termine. Dovranno declinarsi in codici di condotta che descrivano le regole e i principi da seguire durante tutti i processi decisionali. Dovranno includere policy, procedure e regole di governo societario diretti ad attuare concretamente e monitorare le politiche ESG e prevedere delle misure specifiche per garantirne l’effettiva osservanza anche da parte dei partner commerciali della supply chain più rilevanti sotto il profilo degli impatti delle proprie attività sull’ambiente e sui diritti. Lo stesso testo della proposta di direttiva CSDDD prevede esplicitamente la necessità di intervenire sui rapporti contrattuali attraverso nuove clausole di garanzie dirette a presidiare e assicurare il rispetto di requisiti ESG lungo l’intera catena di approvvigionamento. Il che rende di palmare evidenza il raggio di estensione della normativa, ben al di là del perimetro delle grandi imprese cui (apparentemente) si rivolge.

Quali sono le aziende coinvolte dalla (proposta di) Direttiva CSDDD?

Secondo l’ultima “release” della proposta di Direttiva, gli obblighi previsti dalla CSDDD dovrebbero riguardare le società con più di 1.000 dipendenti e un fatturato netto mondiale superiore a 450 milioni di euro nell’ultimo esercizio finanziario; le società capogruppo di gruppi di imprese che raggiungono tali dimensioni; le società o le capogruppo di un gruppo di imprese che hanno stipulato accordi di franchising o di licenza nell’Unione Europea, oltre determinate soglie di fatturato; le società extraeuropee aventi in Europa un fatturato e numero di dipendenti eccedenti le soglie sopra indicate. In sintesi, saranno impattate dalla Direttiva (se approvata) tutte le società appartenenti a gruppi aventi, nel complesso, oltre mille dipendenti e 450 milioni di fatturato. Ma il contraccolpo sarà potentissimo anche per gli altri: le attività di screening e rimodulazione dei rapporti contrattuali in chiave ESG riguarderanno anche le piccole e medie imprese che, in Italia e negli altri paesi europei, rappresentano il cuore delle supply chain a servizio dei big dell’industria. Con molti sforzi e qualche rischio di vedersi estromessi dalle catene di fornitura. 

Combattere il cambiamento climatico

La proposta di Direttiva CSDDD, nella sua ultima formulazione, stabilisce che le imprese dovranno mettere in atto un piano di transizione per la mitigazione dei cambiamenti climatici in linea con la visione strategica della Commissione Europea per realizzare un’economia climaticamente neutra entro il 2050, orientando il proprio modello di business verso l’obiettivo di ridurre il riscaldamento globale a 1,5 °C. Il progetto di piano di transizione dovrà contenere gli obiettivi temporali relativi al cambiamento climatico per il 2030 e per il 2050; una descrizione delle leve di decarbonizzazione e azioni pianificate per raggiungere gli obiettivi; una descrizione e quantificazione degli investimenti e finanziamenti pianificati a sostegno dell’attuazione del piano; una descrizione del ruolo degli organi di amministrazione, gestione e vigilanza. I CdA dovranno aggiornare il piano ogni 12 mesi e fornire i dettagli sui progressi compiuti per raggiungere gli obiettivi. 

Le sanzioni

Gli Stati Membri saranno chiamati a stabilire le sanzioni anche pecuniarie per le imprese obbligate che dovessero violare gli obblighi di dovuta diligenza in materia di sostenibilità. Non solo. Le società che non rispetteranno gli obblighi di diligenza saranno civilmente responsabili e quindi tenute a risarcire i danni patiti dalle persone fisiche e giuridiche direttamente coinvolte dagli impatti negativi. 

Le reazioni

Il progetto di Corporate Sustainability Due Diligence Directive – come comprensibile – ha scatenato un acceso dibattito tra fervidi sostenitori, qualche detrattore e un nutrito numero di “perplessi” di fronte a una proposta di direttiva così “impattante”. Il dubbio che serpeggia tra gli operatori è se l’effetto di leggi così pervasive non sia quello di ridurre la competitività. Si potrebbe rispondere, però, che le imprese sostenibili sono più resilienti e quindi capaci di resistere alle sfide di mercato con risultati di creazione di valore nel più lungo periodo. La sfida – niente affatto banale – sarà quella di semplificare, per quanto possibile, le regole di governance, trovando una sintesi virtuosa tra profitto, compliance e obiettivi ESG

La formula segreta del successo sostenibile.

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