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COP26 di Glasgow, che batosta sulla finanza climatica

COP26 di Glasgow: le decisioni sulla finanza climatica
crediti: UNclimatechange via Flickr (CC BY-NC-SA 2.0)

Uno dei nodi più duri da sciogliere alla COP26 di Glasgow

(Rinnovabili.it) – I soldi sono il motore della risposta globale alla crisi climatica e proprio sui soldi – la finanza climatica – c’è stato il braccio di ferro più duro alla COP26 di Glasgow. Questi fondi, infatti, sono quelli che i paesi più ricchi destinano ai paesi in via di sviluppo per supportarne la transizione e l’adattamento all’impatto del cambiamento climatico.

Il summit doveva fare essenzialmente 3 cose: stabilire a che punto siamo rispetto alle vecchie promesse, decidere come rilanciare i finanziamenti per il clima dopo il 2025, e assicurarsi che i fondi mobilitati rispondessero a un principio di equità e proporzionalità. Dopo la prima analisi dedicata alle misure per la mitigazione decise in Scozia, vediamo ora nel dettaglio cosa ha deciso il Patto sul clima di Glasgow per la finanza climatica.

Promesse mantenute? No

Nel 2009, i paesi più ricchi avevano promesso di mettere sul piatto almeno 100 miliardi di dollari ogni anno entro il 2020. La COP26 di Glasgow ha preso atto che l’obiettivo è evaporato. A fine 2019 la quota raggiunta arrivava appena a 80 miliardi. Dopo una maratona guidata dagli USA e dal Regno Unito per alzare l’ambizione in vista del summit scozzese, siamo arrivati più o meno a 95 miliardi. Sempre troppo poco.

Così l’articolo 44 del Patto climatico di Glasgow “nota con profondo dispiacere” che i paesi ricchi hanno mancato l’obiettivo. Per rimediare, è stato preparato un programma che dovrebbe consentire di raggiungere la quota nel 2023, con tre anni di ritardo. Ma forse già l’anno prossimo se si materializzerà una promessa del Giappone.

Questo fallimento è stato uno scoglio nei negoziati. I paesi in via di sviluppo volevano che i paesi ricchi si impegnassero a garantire anche i fondi mancanti, rispetto ai livelli mobilitati dal 2020. Contestualmente, chiedevano di discutere seriamente e nei dettagli come impostare la finanza climatica post 2025 per evitare di ricadere nello stesso problema. Hanno dovuto cedere su tutta la linea.

E dopo il 2025?

Di cosa succederà dopo il 2025, i paesi più ricchi non hanno voluto discutere nel dettaglio. Il gruppo di paesi africani e il Like-Minded Group of Developing Countries chiedeva 1.300 mld l’anno, richiesta caduta nel vuoto. L’opzione è stata stralciata dal testo. Prima di discutere di cifre, i paesi più ricchi – USA e UE in testa – vogliono allargare la platea dei paesi che devono aprire il portafoglio. Per ora sono i paesi Ocse, ma ci sarebbero altri Stati con economie solide che non avrebbero problemi a contribuire ma sono esentati. Washington e Bruxelles puntano a paesi come la Corea del Sud, ad esempio, o molti paesi arabi del Golfo. Per ora, però, tutto questo discorso è stato rimandato.

Una transizione equa

Così come è rimandato l’appuntamento con una definizione condivisa di finanza climatica. Per quanto possa suonare incredibile, nessuno dei 25mila delegati presenti alla COP26 di Glasgow potrebbe dire con sicurezza cosa conta come finanza per il clima e cosa no. In questa ambiguità continueranno a muoversi anche i prossimi round di negoziati.

Si tratta di un punto molto importante per molti motivi. Oltre a quelli più evidenti – serve trasparenza per avere un monitoraggio degno di questo nome, altrimenti si incrina la fiducia tra le parti – è in ballo la qualità della finanza climatica. I paesi in via di sviluppo chiedevano che si mettesse nero su bianco che metà dei fondi devono finire in misure di mitigazione ma l’altra metà devono essere vincolati a progetti di adattamento al climate change. La mitigazione fa comodo ai paesi più ricchi che cercano di compensare le loro emissioni, ma non aiutano i paesi destinatari a prepararsi ai graffi della crisi climatica.

E poi c’è la questione della forma con cui sono erogati questi fondi. La maggior parte delle volte si tratta di prestiti, anche con tassi d’interesse molto alti. I paesi destinatari chiedono che sia prevista una quota maggiore di trasferimenti. Il motivo è evidente: i prestiti creano debito, i trasferimenti no. Il rischio è di stringere il cappio attorno al collo di paesi con economie molto fragili, con la transizione ecologica che si trasformerebbe in uno strumento dal sapore decisamente coloniale. Anche su questo punto, i paesi in via di sviluppo hanno dovuto cedere. Il testo uscito da Glasgow non ne parla.

La COP26 di Glasgow fa un timido passo sui Loss & Damage

Molto dibattito ma ben poche decisioni anche sul capitolo perdite e danni (Loss & Damage). Con questo termine, la COP26 di Glasgow si riferisce ai fondi – previsti dall’accordo di Parigi – che vanno mobilitati per compensare i paesi più colpiti dal cambiamento climatico dei danni che subiscono. Tasto scivolosissimo perché i paesi ricchi tutto vorrebbero fare fuorché svenarsi senza un ritorno tangibile.

E infatti questo capitolo è rimasto quasi fuori dal Patto sul clima di Glasgow, rientrando solo all’ultimo minuto e in una forma decisamente embrionale. Perché le perdite e i danni siano riparati serve un meccanismo che quantifichi l’ammontare, sia monitorabile, e sia accettato da tutti. Un primo passo in questa direzione risale al 2019: la COP25 creò il Santiago network. Peccato che oltre il nome non ci sia null’altro. Alla COP26 i progressi sono arrivati col contagocce ma, almeno, hanno reso un po’ più operativo questo meccanismo.

Il testo però è molto avaro di dettagli. Si parla di “assistenza tecnica” ai paesi bisognosi, e si chiede ai donatori di provvedere con dei fondi affinché questa forma di assistenza sia operativa. Chi deve pagare, quanto, e per quali scopi non è stabilito. Quindi il Santiago network oggi è un po’ meno un fantasma rispetto alla sua prima comparsa a Madrid, ma resta ben lontano dall’essere utile a qualcosa. (lm)

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