Un’analisi di Urgewald e altre 27 ong sui flussi di investimenti verso 1.032 aziende globali che operano a tutti i livelli nel settore del carbone rivela che, dal 2019 a novembre 2021, l’industria ha ricevuto 1,5 trilioni di dollari. La maggior parte come sottoscrizioni (underwriting) da parte di istituzioni finanziarie legate a uno Stato
Cina e Giappone i maggiori investitori nel carbone
(Rinnovabili.it) – Più di 1.500 miliardi di dollari in appena 3 anni. È la cifra incamerata dall’industria del carbone in tutto il mondo tra il gennaio 2019 e il novembre del 2021, mentre era in corso la COP26 di Glasgow. Una boccata d’ossigeno per un comparto che è ormai finito nel mirino della diplomazia climatica anche ai massimi livelli, dal G20 alle conferenze sul clima. E che non ha alcuno spazio nella transizione energetica secondo molte previsioni, tra cui quelle dell’Agenzia internazionale per l’energia (IEA).
Per ricostruire il fiume di denaro con tutti i suoi rivoli e rivoletti hanno unito le forze 28 ong da tutto il mondo, tra cui la tedesca Urgewald, creatrice della Global Coal Exit List su cui si basa questo lavoro collettivo. La lista comprende 1.032 aziende con attività che vanno dall’estrazione alla conversione del carbone in liquidi, dalla gestione di centrali a carbone alla produzione di attrezzature per nuovi impianti.
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L’identikit dell’investitore nel carbone che emerge dal lavoro di analisi è molto semplice: opera in un paese del G7-G20, ha un profilo istituzionale, sostiene di essere in prima fila nella transizione ma in realtà rema contro. Dei 1.500 miliardi di investimenti, infatti, ben l’80% – 1.200 mld – sono erogati da istituzioni finanziarie negli Stati Uniti, in Cina, in Giappone, in India, in Canada e in Gran Bretagna.
Paesi che si sono impegnati, anche se molto timidamente, a mettere un freno agli investimenti nel carbone. Al G7 in Cornovaglia di giugno 2021 4 di questi paesi si sono impegnati a cessare il supporto al carbone nei paesi OCSE entro la fine dello stesso 2021 (anche se riguarda solo i nuovi impianti senza CCS). Mentre a Glasgow la promessa globale è stata di ridurre l’uso di carbone. In ogni caso, questi 6 paesi stanno continuando a pompare quantità enormi di denaro verso le aziende della Global Coal Exit List.
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Il fatto che 8 investitori su 10 siano legati agli Stati è preoccupante, sottolinea Yann Louvel, analista politico di Reclaim Finance, una delle ong che ha contribuito all’analisi. “È assolutamente spaventoso vedere che fondi pensione, gestori patrimoniali, fondi comuni e altri investitori istituzionali stanno ancora scommettendo sulle aziende del carbone nel bel mezzo di una crisi climatica esistenziale”.
I maggiori prestatori sono le giapponesi Mizuho Financial, Mitsubishi UFJ Financial e SMBC Group, seguite dall’inglese Barclays from the UK e dall’americana Citigroup. Le prime 12 banche hanno fornito, da sole, il 48% dei prestiti all’industria del carbone.
Ma lo strumento più usato, che vale 1.200 mld di dollari, è quello della sottoscrizione di titoli di nuova emissione da parte di un intermediario finanziario, in vista di una rivendita o con l’impegno di collocamento con garanzia nel mercato. Qui le prime 12 istituzioni forniscono il 39% del volume e sono tutte – tranne una, JP Morgan Chase – cinesi. Industrial Commercial Bank of China, China International Trust and Investment Corporation e Shanghai Pudong Development Bank guidano la classifica.