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Crespi: perché è urgente misurare l’impatto ambientale della moda

Crespi: perché è urgente misurare l’impatto ambientale della moda
Credits: Venice Sustainable Fashion Forum

Intervista ad Andrea Crespi – Delegato alla sostenibilità SMI

Al Venice Sustainable Fashion Forum abbiamo incontrato Andrea Crespi, responsabile della sostenibilità del Sistema Moda Italia, per capire se e come il settore stia vivendo la transizione verso un modello produttivo più sostenibile. 

Andrea Crespi, Il tema della terza edizione del Venice Sustainable Fashion Forum è «Leading Re-Generation». È possibile rigenerare la moda, e quanto trasformerebbe un settore ancora oggi particolarmente inquinante?

Diciamo innanzitutto che dobbiamo rendere il settore meno inquinante. 

Non possiamo pensare che la moda sia solo il lusso che ha notoriamente un impatto nettamente inferiore perché vive di longevità. Però il lusso non è alla portata di tutti, e quindi l’unico modo per essere meno impattante per il pianeta – anche per il settore del fast fashion, cioè il non lusso – è appunto la rigenerazione. L’Europa oggi ci dice di guardare al riciclo ed il nostro Paese ci preannuncia che devono partire i Consorzi e le responsabilità estese del produttore. E’ tutto molto giusto, ma ancor prima dovremmo sensibilizzare il consumatore che dovrebbe capire che comprare un capo è un atto politico e, quando lo dismette, un atto ambientale.

Il tema della rigenerazione prevede un profondo cambiamento, come la trasformazione digitale e la tracciabilità del prodotto. Quali sono, a suo giudizio, le priorità?

La misurazione è fondamentale. Se non misuriamo, non siamo in grado di capire dove è focalizzato l’impatto e quali possono essere le azioni corrette. Con la tracciabilità, possiamo mettere in condizione le nuove generazioni di essere più consapevoli. Senza misurazione e tracciabilità, rischiamo il greenwashing.

Crespi: perché è urgente misurare l’impatto ambientale della moda

Da quello che lei mi dice, immagino che il rapporto di sostenibilità aziendale, che sta per diventare un obbligo per aziende di una certa dimensione, non sia ancora molto diffuso nel mondo della moda…

Direi di no e per due fattori. La filiera italiana è polverizzata, con pochi addetti per azienda e piccoli fatturati. Arrivare a una rendicontazione non finanziaria richiede strutture e risorse che le piccole aziende spesso non hanno. Detto ciò, i grandi brand vantano determinati processi di auditing e controllo, ma tutta la filiera manifatturiera italiana – composta anche dai piccoli – è virtuosa e forse meriterebbe maggiore ascolto.

Alcuni relatori presenti al Forum hanno suggerito l’aggregazione delle piccole aziende come possibile soluzione. È d’accordo?

L’aggregazione non vuol dire perdere l’identità. A volte, per rimanere piccoli e concentrarti sulla manifattura, puoi appoggiarti a una struttura esistente che ti toglie le sovrastrutture di costo. Oggi, fare impresa tessile non vuol dire solo essere bravi a fare un prodotto, ma essere coerenti con norme sempre più stringenti, cosa difficile per una micro azienda.

Infine, quale azione concreta si può fare, oggi, per sensibilizzare i consumatori sui grandi temi della sostenibilità della moda?

Dovremmo partire dalle scuole, insegnando ai nostri figli il valore di un capo d’abbigliamento. Anche lo Stato e l’informazione dovrebbero fare di più, per esempio, mostrando la tracciabilità dei prodotti, come accade nel settore alimentare.

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