Sviluppo sostenibile su piattaforme condivise, filiere integrate, ricerca e partenrships le chiavi vincenti. Lo racconta Catia Bastioli in un’intervista a 360° che ruota intorno alla sua visione di imprenditrice, ricercatrice e manager allo stesso tempo
di Fabrizia Sernia
(Rinnovabili.it) – Un nuovo modo di fare sviluppo industriale, collegato alle materie prime locali, alle caratteristiche dei territori, incluso l’utilizzo “energetico”degli scarti. Una realtà oggi possibile, attraverso la creazione di un sistema di filiere integrate, basate sull’approvvigionamento sostenibile di biomasse, che permetta sia di applicare le innovazioni, quindi l’economia della conoscenza, a livello locale – incoraggiando processi di bioraffineria innovativi, a basso impatto ambientale e lo sviluppo di bio prodotti ad alto valore aggiunto – sia di assicurare l’inclusione sociale. Per Catia Bastioli, Amministratore Delegato di Novamont, ricercatrice, manager, imprenditrice di livello internazionale, (nonché Presidente del Kyoto Club), che declina tutti questi ruoli senza alcuna dicotomia e con grande passione, la sfida di “cambiare paradigma”, nel segno della bioeconomia, guardando la realtà da un’altra angolazione, è iniziata circa trenta anni fa. Allora, con piglio pioneristico, decise di investire su un nuovo modo di fare chimica – oggi la definiamo “green” -, concentrando la ricerca scientifica sull’individuazione di nuove tecnologie capaci di garantire prodotti chimici ambientalmente sostenibili. Oggi, grazie alla condivisione di progetti di respiro nazionale e internazionale e lo sviluppo di importanti partnership, basate sull’innovazione e l’ingegnerizzazione di tecnologie, come quelle sulle bio-plastiche – e improntate all’adozione di un’economia di sistema – può toccare con mano gli importanti risultati raggiunti. ”Anche in Italia – dichiara a Rinnovabili.it – se vogliamo, possiamo fare le cose. Con fatica terribile, se uno vuole, le cose può fare. Ma, – avverte – l’economia di sistema non ammette alibi”.
Dottoressa Bastioli, la sua vita professionale, come ricercatrice e come manager, è legata alle bioplastiche, alla chimica verde. Qual è il futuro della chimica verde in Italia?
In realtà nella mia vita ho fatto molto altro rispetto alle bioplastiche, che in qualche modo mi sono state “appiccicate” addosso. A fronte di uno scenario come quello italiano, in cui non abbiamo grandi quantità di materie prime, e in cui la chimica tradizionale per molti decenni non ha investito, provocando casi di deindustrializzazione molto pesante, credo che la bioeconomia, ovvero il concetto di reindustrializzazione territoriale, tenendo conto dell’uso delle materie prime e degli scarti locali, sia in grado di poter dare – e questo sta già avvenendo – dei grandi contributi. Noi ci sentiamo orgogliosi di essere andati controcorrente, in tempi in cui non si faceva ricerca, e di aver contribuito a mettere in campo una serie di tecnologie che oggi stanno dando dei risultati, grazie a dei Gruppi che stanno declinando le innovazioni, alcune delle quali sono già state utilizzate per trasformare siti deindustrializzati. Intorno alle bioplastiche siamo riusciti, alla fine e con grandissima fatica, ad aggregare il mondo ambientalista e il mondo industriale. Con Federchimica, siamo riusciti ad aggregare il mondo del lavoro, i sindacati, l’industria, le istituzioni locali e le istituzioni nazionali. Un percorso che ha permesso di arrivare a una piattaforma comune di azione.
Ad esempio?
In Europa si affronta il tema degli shopper. Sembra una sciocchezza, ma in realtà si tratta di un piccolo catalizzatore di economia ed è un classico modo di vedere la bioeconomia, che è interconnessa, intersettoriale e interdisciplinare. Lo shopper, da un lato è un problema ambientale; dall’altro diventa invece un oggetto che permette di fare raccolta differenziata dell’umido, togliendolo dalle discariche, altro grande problema ambientale. Quello che era un problema si traduce in un’opportunità enorme: il rifiuto organico trasformato in compost dà fertilità ai suoli che hanno problemi di desertificazione, in una bioeconomia in cui i suoli sono il nostro petrolio. Su questo tema l’Italia ha raggiunto una pace e un progetto comune. L’innovazione può trasformarsi in una grande leva per lo sviluppo futuro solo se abbiamo una piattaforma comune condivisa. So che c’è un conflitto non sanato, che Raoul Gardini già nell’89 evocava, riguardo ai grandissimi problemi ambientali, allora già evidenti, sui quali egli temeva che – in assenza di bonifiche e di durissimo lavoro – sarebbe maturata una scissione “insanabile” fra industria e ambiente. Questo è accaduto e oggi siamo con quei problemi di 25 anni fa ancora sul tavolo, ma se ci dividiamo su quello che abbiamo fatto in passato e non abbiamo la piattaforma su cui costruire il nostro futuro, il nostro futuro non ci sarà. Quindi la bioeconomia, anche per il lavoro fatto, per il lavoro di pacificazione e di condivisione di progetti su esperimenti fatti in Italia che oggi rappresentano esperimenti di riferimento anche per l’Europa – per esempio quello che è stato fatto con il rifiuto organico, a Milano, oppure, i progetti avviati in altre regioni, sulle bioplastiche, sulla biodegradabilità – è la base su cui costruire il futuro.
Un aspetto molto interessante è il rapporto della bioraffineria con il territorio, un elemento ricorrente nella vostra visione aziendale e nella sua in particolare. I modelli di eccellenza che possibilità hanno di sviluppo reale, in Italia?
Moltissime. Basti pensare a quello che stiamo facendo in Sardegna (con il Progetto Matrica, della prima bioraffineria integrata d’Europa, in partnership con la società chimica dell’ENI, Versalis, ndr) e ciò che altri potranno fare su questa base. Un esempio. Alla bioraffineria di Porto Torres, l’acido azelaico e l’acido pelargonico, (che derivano dalla trasformazione degli oli vegetali,ndr) sono prodotti che saranno utilizzabili sia per la produzione di bio – lubrificanti per i settori agricolo, marino ed automobilistico, sia per applicazioni nel settore cosmetico. Altri prodotti saranno utilizzati per migliorare la bassa resistenza al rotolamento dei pneumatici. Immaginate che tipi di imprese possono nascere a valle di questo tipo di filiere. Un altro aspetto: le filiere agricole che stiamo creando su terreni marginali incolti, creeranno posti di lavoro, faranno cose nuove e contribuiranno anche al fabbisogno energetico. Sono tutte opportunità incredibili per il territorio. E’ chiaro che abbiamo bisogno di imprenditori e di istituzioni che siano in grado di cogliere queste opportunità.
Come?
Per esempio immaginando che in futuro, i natanti che hanno problemi di rilascio di lubrificanti in mare, possano utilizzare bio-lubrificanti, così come in agricoltura si possano utilizzare una serie di prodotti meno impattanti. Si può affermare che la vocazione alla qualità e al bello dell’Italia, che poi è l’unica strada per uscire dalla crisi, si declina perfettamente con le bioraffinerie integrate, che sono dei catalizzatori di innovazione, anche nel modo di indurre le persone a pensare in modo diverso.
Qualche anno fa Lei ha tenuto una lectio magistralis sul tema delle energie rinnovabili: da economia di prodotto a economia di sistema. Che cosa significa?
Credo che l’economia dei prodotti debba finire. Il concetto non è quello di produrre sempre di più, ma quello che un prodotto si fa, ma all’interno di un sistema, cercando di ottimizzare il tutto. Quindi, se io penso all’economia dei prodotti è un’economia lineare, dove spingo una cosa soltanto. L’economia di sistema significa un’economia circolare che riesce a leggere tutti gli aspetti. Un esempio banale, tornando al rifiuto organico: in un sistema dove c’è un’economia di prodotto di tipo dissipativo, il rifiuto organico diventa un costo: ricordiamo quello che è successo a Napoli, con la pattumiera per strada che è non solo un costo ambientale, ma anche un costo sociale e igienico. D’altra parte c’è la Piana del Sele, dove vengono coltivate in modo intensivo le insalate di quarta gamma, con un terreno senza carbonio, ormai, quindi desertificato. Sono due costi, per la società che non è capace di guardare in modo sistemico. Se, viceversa, incrocio questi eventi, riesco a trasformare il rifiuto organico in risorsa, che arricchisce il terreno: ho maggiore quantità di insalata, maggiore occupazione, e un sistema pulito. Tutto ciò ha un costo, ma offre delle opportunità. Questa è l’economia di sistema, che utilizza l’economia della conoscenza con innovazioni continue sul territorio, esprimendo un valore economico, ambientale e sociale, intorno ad un’idea di sviluppo futuro, a cui tutti partecipano. Questo, però, significa anche avere dei manager diversi e dei dirigenti diversi, che non vengono dalle vecchie scuole di economia. Il profitto non può essere l’unico parametro di un sistema, perché l’impresa è anch’essa parte della società. Le bioraffinerie integrate sono un tipo di realizzazione in questa direzione, dove si consegue anche inclusione sociale. A Porto Torres, per esempio, abbiamo creato dei progetti dove c’è spazio per tutti, giovani e vecchi. L’impianto è nato da una tecnologia che è stata portata avanti da persone di entrambe le generazioni.
Una delle chiavi dell’innovazione può nascere dalla collaborazione con i centri di ricerca e le università. Spesso però le aziende incontrano delle difficoltà. Voi come avete fatto?
Grazie all’ex ministro Francesco Profumo, che ha lanciato il concetto di cluster e questo è stato un passo avanti epocale, in Italia. Da parte nostra abbiamo avviato un cluster di chimica verde, di cui sono Presidente, con co-fondatori Federchimica, Versalis e Mossi&Ghisolfi. Il cluster si chiama Spring – Sustanaible Processes and Resources for Innovation and National Growth -, conta oltre un centinaio di iscritti – tutti operanti nel campo della bioeconomia – e ha visto partire già quattro progetti con 32 partner. Con questo cluster abbiamo costituito una governance che comprende l’industria, i rappresentanti delle Università, delle associazioni e delle Regioni. Non solo. Abbiamo coinvolto otto regioni in un documento di strategia sulla bioeconomia del cluster, che lo hanno supportato e stanno declinando a loro volta dei cluster di tipo nazionale. E‘ evidente che se c’è una strategia complessiva, con un progetto industriale, di paese”, allora si riesce a valorizzare al meglio le competenze dei diversi istituti di ricerca, ed è quello che stiamo facendo con questo cluster. Novamont e Matrica, ad esempio, hanno due progetti importanti sulla filiera del cardo. Abbiamo messo a sistema il CNR, il CRA, l’ENEA su questi progetti, cercando di valorizzare le competenze che avevano. Senza un progetto di futuro e di visione, il ricercatore ovviamente accresce le sue competenze sul progetto, ma poi il problema è come trasformare la competenza in realtà industriale sostenibile e immediata, perché noi non possiamo aspettare i secoli. Questo è il modo, perché si crea innovazione immediata, si crea ricerca di base, e c’è una filiera che va in questa direzione. Fra l’altro, il cluster italiano si collega alla filosofia dei cluster europei. Nella bioeconomia, l’obbiettivo che quindi noi abbiamo è che il cluster Spring diventi un’interfaccia per questo tipo di temi e diventi anche un interlocutore con i governi. Al Governo stiamo anche chiedendo – visto che la bioeconomia è interdisciplinare – che il cluster sia un motore di sviluppo. Lo sviluppo deve essere incardinato all’interno di un progetto Paese, altrimenti è inutile spendere soldi.
Attraverso questi cluster è possibile irradiare conoscenze all’ambiente circostante, al tessuto delle PMI?
Assolutamente sì, perché le PMI sono “dentro” e imparano, si specializzano, si connettono. E’ un environnement che va capito. In questo momento noi rappresentiamo casi studio. In teoria è difficile capirlo, ma quando si mette in pratica è tutto chiaro. Quando mostriamo a un interlocutore delle istituzioni l’impianto che abbiamo costruito, le varie aziende che stanno lavorando intorno, e quanto vale la filiera delle aridocolture, dalle quali possiamo tirare fuori seme, olio, proteine, zuccheri di seconda generazione e poi carburante, capisce il sistema della bioeconomia. Se si declina questo approccio per i terreni marginali e i terreni abbandonati – dal ’90 ad oggi abbiamo 5 milioni di ettari che sono stati abbandonati, dei quali coltivabili 2,2 milioni – noi cambiamo radicalmente l’economia del paese, creando delle filiere integrate.
Si produrrebbe un grande beneficio…
Senza dubbio. Pensate soltanto all’agroindustria, con tutti gli scarti che avevano e che hanno. Pensate alla Sicilia, con gli scarti di pomodori, di arance. Gli scarti hanno delle potenzialità di sviluppo di prodotti ad alto valore aggiunto. Con le competenze che stiamo costruendo, crediamo di poter irrorare di conoscenza industriale il tessuto produttivo. Come Novamont, siamo in grado – e questa è una cosa abbastanza unica – di fare ricerca di base e ricerca applicata sugli impianti, abbiamo fatto ripartire società di ingegneria. Sono vent’anni che non si costruiscono impianti veri, industriali, con alta tecnologia, come abbiamo fatto in Matrica. Queste sono cose che servono a rilanciare il paese, nelle quali abbiamo coinvolto tante università e centri di ricerca, con i loro dipartimenti di ingegneria, di tecnologia, e le imprese piccole e medie.