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La smart city crea più problemi di quanti ne risolve?

Le città intelligenti, l'IoT, le auto driverless, i flussi di big data: innovazioni indispensabili o fonte inesauribile di nuovi problemi? Secondo Maarten Hajer sbagliamo a farci dominare ciecamente dalle nuove tecnologie

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(Rinnovabili.it) – Il dibattito sul futuro delle città rischia di essere cannibalizzato dal progresso tecnologico. Auto driverless, IoT e dispositivi intelligenti per la casa le renderanno disfunzionali. In breve: la smart city crea più problemi di quanti ne risolve. L’accusa proviene da Maarten Hajer, il curatore della edizione 2016 della Biennale di Architettura di Rotterdam. E lancia un appello ad architetti e designer: smettetela di vedere l’avvento delle tecnologie intelligenti come qualcosa di inevitabile.

 

smart cityIl discorso è tutt’altro che uno sfogo nostalgico e conservatore. Al contrario, il docente di “Futuri Urbani” all’Università di Utrecht sfrutta il palcoscenico della kermesse internazionale per proporre di ribaltare completamente il paradigma. “Big data, stampa 3D, uso dei robot nella sfera della salute: siamo abituati a pensarli come se fossero eventi inevitabili. La mia proposta è: dobbiamo essere noi a ragionare su cosa vogliamo da quei progressi della tecnologia”.

Come tema per la quinta edizione della Biennale ha scelto l’economia del futuro. Ha raccolto più di 50 progetti che provano a ripensare i sistemi su cui si reggono le città contemporanee. Così nei padiglioni di Katendrecht sfilano fruttivendoli mobili cinesi e grandi cooperative di housing sociale dal Belgio.

 

Non ho nulla contro le buone tecnologie, sono meravigliose – spiega Hajer – Ma i problemi sociali devono sempre avere la priorità”. E i progetti “low-tech” che ha selezionato, nella sua visione, offrono alle città la possibilità di funzionare in modo più efficiente. Al contrario le tecnologie intelligenti, l’ossatura delle smart city, offrono spesso risposte a problemi che non esistono.

 

“Se non ci serve per tagliare le emissioni di CO2, se non ci serve per rendere le città più socialmente inclusive, se non ci aiuta a lavorare con significato, allora la tecnologia smart non mi interessa. A volte penso: se un dispositivo intelligente è la soluzione, qual era allora il problema? È più simile a una soluzione che cerca il suo problema”

 

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La questione, per Hajer, è il fatto che si creano nuovi e pressanti problemi, troppo spesso sottovalutati. Ad esempio quello – decisivo – della privacy. Ma la lista sciorinata dal professore universitario è lunga. Quanti data center serviranno per gestire le auto driverless e il via vai di big data? È davvero sicuro fare tutto questo affidamento sul GPS, visto che è una tecnologia (e un monopolio) militare?

Forse, se vengono estremizzate, queste posizioni di Hajer possono suonare come delle provocazioni. Ma è difficile sostenere che siano destituite di ogni fondamento. Di certo far suonare il campanello d’allarme e invitare alla riflessione su questi temi non fa del male.

 

In fondo, Hajer propone una sorta di linea di massima da seguire, racchiusa in una formula semplice: non abbiamo bisogno di smart city ma di “smart urbanism”. Rimettendo al centro l’uomo e i problemi sociali, senza idoli di silicio e microprocessori.