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Malattie infettive e contagio, quanto contribuisce l’urbanizzazione

La progressiva urbanizzazione ed i fenomeni ad essa connessi incidono enormemente sulla diffusione e sul contenimento delle malattie infettive. Impossibile basarsi solo su Quarantena e lockdown: occorre riprogettare gli spazi urbani e le relazioni spaziali tra città e periferia

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Foto di Christop00 da Pixabay

Affidarsi a drastiche misure statali di contenimento non è la strada giusta. Per prevenire e contenere i contagi serve una nuova logica nei progetti di urbanizzazione

(Rinnovabili.it) – Ad incidere negativamente sulla diffusione di nuove epidemie non sarebbero soltanto l’inquinamento atmosferico e la deforestazione, ma anche l’urbanizzazione, l’espansione delle aree urbane e le mutevoli relazioni spaziali tra città, periferie e campagna. 

A rivelarlo è lo studio pubblicato su Urban Studies dal ricercatore inglese Creighton Connolly dell’università di Lincoln e dai canadesi Roger Keil e S. Harris Ali della York University. Gli autori non hanno dubbi: “Le malattie infettive emergenti hanno molto a che fare con come e dove viviamo. Il recente scoppio del coronavirus Covid-19 è un esempio delle strette relazioni tra sviluppo urbano e malattie infettive nuove o riemergenti. Come per la pandemia di SARS del 2003, le connessioni tra l’urbanizzazione accelerata, i mezzi di trasporto più diffusi e più veloci e la crescente vicinanza tra vita urbana e natura non umana – e le successive infezioni trans-specie – sono diventate immediatamente evidenti”.

Alterando le relazioni spaziali che modellano il modo in cui milioni di persone vivono e interagiscono tra loro e con la natura, spiegano i ricercatori, si facilita la creazione di “nuove nicchie ecologiche per la diffusione di malattie infettive”. 
Gli autori dello studio fanno in particolare riferimento a quartieri periferici, bidonville, campi profughi o comunità di lavoratori che vivono vicino a miniere o fabbriche. Si tratta di zone densamente popolate, pianificate in modo errato, prive di infrastrutture igienico-sanitarie adeguate. “Queste aree suburbane e periurbane – si legge sullo studio – hanno maggiori probabilità rispetto alle città di essere la fonte di malattie infettive nuove e riemergenti. Sono particolarmente vulnerabili alle malattie che passano il confine animale-umano (zoonosi), poiché mettono in contatto popolazioni di esseri umani e bestiame con gli animali selvatici in un modo che non avviene nelle città”. 

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La mega urbanizzazione e, con essa, il cambiamento nella mobilità della popolazione, le infrastrutture e la sua governance cittadina, rappresentano elementi da prendere in grande considerazione quando si tratta di valutare i potenziali rischi epidemiologici.

Parallelamente, i sistemi di governo strutturati in modo differente possono dare esiti differenti al contenimento della malattia. “Sebbene sia terrificante vedere intere megalopoli messe in quarantena – chiariscono i ricercatori – è improbabile che tali misure drastiche vengano accettate in Paesi non governati da una leadership autoritaria centralizzata. Ma anche in Cina, la governance multilivello si è rivelata fallimentare, in quanto le unità del governo locale, regionale e centrale (e di Partito) non erano sufficientemente coordinate all’inizio della crisi. Una situazione simile è stata osservata in stati federali come il Canada, gli Usa, il Brasile e nella stessa Unione europea”. 

Sviluppare metodi efficienti e innovativi per affrontare le malattie infettive emergenti senza fare affidamento su drastiche misure statali si dimostra per tanto un obbiettivo fondamentale. A ciò sono chiamati geografi, scienziati della salute e sociologi, i cui sforzi coordinati dovranno portare ad una “migliore comprensione delle mutevoli relazioni spaziali tra città, periferie e campagna”, nonché ai “fattori che modellano questi cambiamenti e i modi efficaci per adattarsi ad essi”. 

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