La sostenibilità è divenuta ormai parola-chiave del lessico politico, scolastico, scientifico e in generale pubblico. Ma siamo certi di intenderci sul suo significato?
di Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo
L’uso della parola “sostenibile” merita particolare attenzione nel contesto di questa rubrica dedicata alle IDEE. Il suo successo comunicativo attuale, infatti, tende a trasformarla in un lessema ripetuto retoricamente ma in sostanza privo di reale azione trasformativa per la società.
Alla radice di un concetto
Dobbiamo anzitutto ricordarci il motivo concreto di questo successo. Il termine serve oggi a esprimere il problema più grave e urgente cui l’intera specie umana è confrontata: il repentino sconvolgimento degli equilibri in genere materiali e specificamente vitali su cui si è retto lo sviluppo della civiltà, con la prospettiva di violenti crolli demografici e al limite dell’estinzione. E in questo senso viene dall’inglese. Nell’accezione inglese, tramite cui la parola “sostenibile” è venuta in auge a livello internazionale, è presente una sfumatura decisiva per comprendere la portata autentica del concetto: sustainable è qualcosa che si può mantenere nel tempo. Il significato che il linguaggio comune gli attribuisce per primo, e che lega il termine al rispetto per l’ambiente, è una semplificazione concettuale che deriva da questa accezione più generale, applicabile in realtà ad ogni altro aspetto dell’azione umana. L’origine linguistica è ovviamente latina, anche se non aveva questa accezione specifica legata al tempo: SUSTINERE. Non è un caso, quindi, che il francese abbia preferito il termine durable per tradurre l’espressione inglese, così come d’altronde il russo (Устойчивое развитие, alla lettera sviluppo stabile) e il cinese 可持续性, i cui due ideogrammi centrali fanno riferimento al “mantenere” e al “continuare” o “riempire nuovamente”.
Una domanda matrice
Il punto è che la civiltà di Homo Sapiens, dopo circa 200.000 anni di storia naturale della specie e circa 12.000 anni dalla Rivoluzione del Neolitico, vede crescere a dismisura i sintomi dell’insostenibilità della sua azione nel sistema-Pianeta. La domanda che dovrebbe caratterizzare dunque ogni riflessione sulla sostenibilità, nel significato più calzante del termine, è: “Continuando a fare così, i risultati prevedibili permetteranno di continuare a fare così?”. Da questa domanda matrice deriva non a caso una delle questioni che abbiamo deciso di porre a tutti i nostri interlocutori della rubrica QuestioniAperte. Questione radicale, ricorsiva e di vasta portata, che rende evidente come tutti i possibili “così” concreti dell’agire umano si prestino a passare al vaglio del criterio di “sostenibilità”, non solo quelli già stereotipati nel discorso pubblico. Analizziamo nel dettaglio le sue implicazioni concettuali, che ci sembra possano essere di stimolo tanto per la riflessione personale di ciascuno di noi in quanto “cittadino” quanto per la riflessione tecnica di chi svolge il ruolo di insegnante.
Qual è il soggetto che agisce?
La formulazione lascia volutamente implicito il soggetto grammaticale. La nostra preoccupazione è infatti, prima di tutto, evitare il riduzionismo individualistico che troppo spesso caratterizza tanto l’educazione quanto la comunicazione e l’azione pubblica in materia. La sostenibilità dovrebbe interrogare invece comportamenti abituali non solo di singoli individui ma anche e forse ancor di più di attori collettivi, rappresentativi di intere comunità: essa riguarda ogni io ma anche ciascuno dei noi, per lo meno dei noi organizzati, che non possono essere ridotti a sommatorie di comportamenti individuali. È un problema comune, su cui lavorare scientificamente, politicamente e pedagogicamente come tale, nel senso che tocca le nostre abitudini e le nostre pratiche in ogni contesto. Ci sono dei noi che sono nostri, peraltro, e ci sono dei noi che sentiamo come dei “loro”, cioè come altri. Ma è comunque un problema in comune, che richiede cioè di imparare ad agire su decisioni e regole che determinano abitudini e pratiche di gruppo – dei nostri come degli altrui “noi”: dalla famiglia al contesto lavorativo, dalla singola classe a un intero plesso o istituto, dalla municipalità alla comunità mondiale passando via via per ogni altra scala istituzionale – ma anche, i vari attori, organizzazioni e imprese private. Anche per questo, invece che educare a un “buon comportamento” preconfezionato e, in realtà, imposto dall’alto, è urgente educare soggettività competenti nel riconoscere e porre problemi, nel ricercare soluzioni e compiere azioni sistemiche a livello collettivo.
I risultati prevedibili
Al cuore di un’autentica e personale interiorizzazione del principio di “sostenibilità”, sta la capacità di fare ipotesi affidabili sui risultati delle proprie azioni. Operazione impossibile senza un bagaglio di conoscenze e di abilità che coincide di fatto con l’intero patrimonio del “sapere” e del “saper fare” elaborato dalla civiltà umana nel suo complesso. La funzione educativa, in ciascuna società, ha proprio a che vedere con la necessità biologica di garantire la riproduzione e l’ulteriore sviluppo, di generazione in generazione, di tale bagaglio culturale. È questo uno dei motivi profondi per cui ogni educazione alla cittadinanza deve entrare in dialogo e nutrirsi trasversalmente di ogni sapere disponibile. Da un lato, i saperi e le competenze disciplinari sono appunto uno strumento irrinunciabile per tentare di prevedere conseguenze, per rendersi capaci di riconoscere quel che si fa e ciò che implica, oltre che per ideare soluzioni creative ai problemi che emergono di fatto: tutti compiti di natura etica e civica che derivano dalla complessa interdipendenza che caratterizza ogni aspetto del Pianeta. Dall’altro lato sentire il bisogno esistenziale di capire di più, sapere di più e saper fare di più per rispondere a problemi autentici è il più possente propulsore per appassionare ogni cittadino e cittadina al sapere in se stesso, per stimolarne quindi la curiosità e il pensiero critico in un orizzonte culturale, sociale e valoriale che non miri a fare della persona umana una mera fruitrice o memorizzatrice di saperi già dati e organizzati, bensì un soggetto capace di metterli in questione, di svilupparli in prima persona e di discuterli e condividerli interpersonalmente. Perciò, pensando in particolare alla scuola, occuparsi di sostenibilità non significa trattare un tema specifico o realizzare singoli progetti, significa adottare strategie didattiche e programmazioni pedagogiche che portino il gruppo classe e i suoi singoli membri a riflettere e a mettere a confronto in modo regolare i contenuti via via affrontati nelle singole materie con la questione fondamentale sopra enunciata.
Fini e valori come criteri di giudizio dei risultati
Possiamo mirare ad accrescere quanto vogliamo le capacità di prevedere e perseguire determinati risultati del nostro agire, ma se non ci saremo occupati dei criteri in base ai quali giudicare o prefissarsi quei risultati, non potremo ancora sentirci cittadini consapevoli e realmente capaci di partecipare alla storia collettiva. Interroghiamoci allora sui fini e sui valori ogni volta in gioco: a che scopo abbiamo iniziato “a fare così” e per quali motivi abbiamo preso l’abitudine di farlo? Fino a che punto questi fini ci interessano ancora e in che misura li riteniamo prioritari rispetto ad altri? Con quali mezzi e in quali modi differenti potremmo raggiungerli?
Il principio guida della sostenibilità richiede in tal senso un netto cambio di paradigma rispetto a una visione trasmissiva di valori e principi dati per acquisiti e stabili nel tempo: costringe a rivedere l’ordine di priorità dei valori e degli obiettivi che sentiamo nostri, a rimetterne in discussione il senso, perché ogni volta che non lo avremo fatto con intenzionalità consapevole saranno i fatti a imporcelo, ma in stato d’emergenza e con un perenne ricatto a precipitare le decisioni. L’esperienza della pandemia, che con questi problemi è strettamente connessa, ce ne ha fornito un esempio patente. E ci sta mostrando anche quanto sia forte in noi l’illusione di poter affidare la soluzione esclusivamente ai modi e ai mezzi disponibili, sopravvalutandone peraltro una categoria particolare, quella tecnologico-produttiva. Ma è in realtà illusorio pensare, peggio ancora educare a pensare, che basti concentrarsi sui mezzi per risolvere i nostri problemi… il risultato altrimenti è che quei mezzi diventano gli unici obiettivi che realmente perseguiamo! La tecnologia, come ogni altro strumento a nostra disposizione, non è un fine in sé ma va posta al servizio di finalità stabilite collettivamente. Abdicare al nostro potere di rimettere in questione i fini, significa tentare disperatamente di conservare o tornare al mondo “normale” costruito sino a qui – con tutte le sue ineguaglianze peraltro: in altri termini, probabilmente significa anche fare il gioco di chi ha interesse a mantenere quel mondo come “normale” e a garantirsi in modo esclusivo il potere di deciderne i fini –, invece di continuare a ripensarlo criticamente per cercare di costruirne ogni volta uno più sostenibile.
Sostenibilità… delle istituzioni!
Se ci riappropriassimo della capacità di riflettere e mettere in discussione i fini, ci accorgeremmo più facilmente anche del fatto che ci sono altre categorie di mezzi a nostra disposizione, su cui sarebbe urgente investire grandi energie creative perché si stanno dimostrando inadeguati ad aiutarci di fronte ai problemi del presente. Ci riferiamo ai mezzi giuridico-politico-istituzionali, che stanno al cuore dell’apprendimento civico, e si riconducono a questioni del tipo: come prendiamo decisioni, come realizziamo le decisioni prese, come monitoriamo la loro realizzazione, chi e su quali scale territoriali può decidere rispetto a determinati problemi…? Va perciò notato in conclusione che un sistema istituzionale che in materia di decisioni pubbliche su scala globale si basa sugli Stati (quasi tutti di scala sub-continentale) come attori predominanti, privilegiandone alcuni tramite un potere di veto, genera prevedibilmente come risultato che i problemi comuni a livello planetario siano affrontati con lentezza decisionale, con metodi di negoziazione scarsamente trasparenti e democratici, con soluzioni di compromesso che penalizzano l’interesse collettivo a favore di interessi particolari, con molta retorica comunicativa ma scarsa efficacia e nessuna coercizione realizzativa e, in ultima analisi, con un perenne rischio di guerra e una perenne lotta per l’egemonia tra “i più forti” (siano essi tra gli stessi attori statuali o, come dimensionalmente ormai accade negli ultimi decenni, anche tra attori privati “globalizzati”). Il che non significa propugnare un accentramento globale del “comando”: significa al contrario impegnarsi a cercare un ordine collettivo che ci metta in grado di affrontare uniti i problemi comuni ma si fondi su autonomie forti e sulla piena partecipazione personale di ogni essere umano in forme dirette e rappresentative su tutte le scale territoriali. Comprendere il nesso tra l’attuale “fare istituzionale” e gli allarmanti effetti dell’attività umana sul Pianeta equivale a domandarsi in fondo: continuando a sviluppare la nostra civiltà e la nostra esistenza planetaria tramite istituzioni e poteri pubblici che ci rappresentano solo in quanto membri di singole comunità organizzate per la competizione fra loro, e che perciò sono incapaci di costruire beni comuni, finalità condivise e soluzioni strutturali ai grandi squilibri globali, noi esseri umani potremo continuare a esistere e sviluppare la nostra civiltà?