Durante il convegno “Marine litter e blue economy, impatti e soluzioni dal mondo della pesca e dell’acquacoltura”, Legambiente pone l’attenzione sull’inquinamento causato dai rifiuti ittici e sull'importanza di cooperare con il settore della pesca e dell'acquacoltura.
Circa 1/3 del marine litter proviene da attività di pesca e acquacoltura. Serve subito il Salvamare.
(Rinnovabili.it) – Come già aveva avvertito Greenpeace, anche da Ecomondo parte un allarme sull’inquinamento degli oceani causato dai rifiuti ittici in plastica, confermando i dati del rapporto della ong. Durante il convegno “Marine litter e blue economy, impatti e soluzioni dal mondo della pesca e dell’acquacoltura” (organizzato da Legambiente, Associazione Mediterranea Acquacoltori, Bluemed, Corepla, Enea, IPPR e Clean Sea Life) è stata presentata un’analisi approfondita – e preoccupante – sulla situazione di nostri mari. I numeri sono impietosi: su oltre 11.000 tonnellate di rifiuti in plastica recuperati ogni anno lungo le coste europee, circa un terzo sono rifiuti ittici, vale a dire provenienti da attività di pesca e acquacoltura, persi o abbandonati.
In Italia, nello specifico, la situazione dei rifiuti ittici non è affatto migliore: negli ultimi sei anni, nel corso del progetto Beach Litter, Legambiente ha rinvenuto oltre 10.000 retine per la coltivazione dei militi, con punte di presenza in alcune spiagge di oltre il 70% dei rifiuti complessivi. Inoltre, secondo gli studi condotti nell’ambito del progetto DeFishGear, nel Mare Adriatico le reti per mitilicoltura sono al settimo posto della top 20 degli oggetti rinvenuti sulle spiagge, rappresentando anche la terza tipologia di rifiuto (8,4% sul totale) registrata nei monitoraggi effettuati sul fondale marino.
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La situazione è chiara, nonché paradossale: se, da un lato, il settore della pesca e dell’acquacoltura è responsabile di questo fenomeno, dall’altro subisce, a sua volta, le conseguenze della presenza di rifiuti abbandonati nell’ambiente marino. Fermo restando che ridurre e riciclare rimangono le strategie prioritarie, per rimuovere parte di rifiuti dispersi nell’ambiente marino è necessario fare leva proprio sul quotidiano lavoro dei pescatori. Per farlo, però, questi ultimi devono essere messi nelle condizioni di riportare a terra i rifiuti che pescano accidentalmente e, da questo punto di vista, il ddl Salvamare rappresenta un passo avanti, seppur sia ancora in attesa del via libera da parte del Senato.
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“Auspichiamo una rapida approvazione del disegno di legge Salvamare”, ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, “si tratta sicuramente di un primo tassello importante, ma che da solo non basta per contrastare l’inquinamento dai rifiuti che colpisce pesantemente il mare. Ad oggi, ad esempio, non c’è ancora nessun controllo o regolamentazione della gestione a fine vita delle calze da mitilicoltura e mancano molto spesso i siti di stoccaggio nei porti oltre a procedure ben definite di riciclo. L’Italia ha un’occasione unica per dare un contributo concreto allo sviluppo della blue economy. La stessa direttiva europea sul monouso prevede la responsabilità estesa dei produttori degli attrezzi da pesca, che ci auguriamo venga applicata anche in Italia”.
Delle speranze ci sono, però, come dimostra il progetto Clean Sea, cofinanziato dalla Commissione Europea nell’ambito del programma LIFE. Attraverso azioni di sensibilizzazione e la diffusione di buone pratiche di gestione fra gli operatori e le autorità locali, regionali e nazionali, il progetto si impegna particolarmente sulla “pesca di rifiuti” che, soltanto durante le prime quattro giornate di sperimentazione (svolte tra giugno e luglio 2018 nei porti di Porto Torres, Rimini, San Benedetto del Tronto e Manfredonia), ha permesso il recupero di 1.534 kg di rifiuti, in gran parte di plastica, attraverso l’aiuto di 34 pescherecci.