Cambia poco la versione definitiva del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, rispetto alla proposta di un anno fa, e dove cambia peggiora. è questa la conclusione alla quale è arrivato il Coordinamento Free dopo aver analizzato la nuova versione del PNIEC.
«La questione più preoccupante è quella legata al carbone – afferma G.B.Zorzoli, presidente di FREE – L’uscita dal carbone viene condizionata a una serie di infrastrutture quali il cavo HVDC Sardegna-Sicilia-Sud che sono difficilmente completabili entro il 2025, mettendo così una seria ipoteca sull’abbandono del combustibile fossile più climalterante. E non ci si ferma qui. Per attuare il phase out dal carbone il Pniec stesso vuole che siano implementate nuove centrali termoelettriche a gas che dovrebbero servire, il condizionale è d’obbligo, anche a garantire la stabilità dl sistema elettrico».
Ma è il quadro generale che disegna il PNIEC a possedere più ombre che luci. Nel piano viene sottolineata la necessità di “costituire una struttura tecnico-politica di stimolo all’attuazione del Piano”, ma l’unico strumento in grado di garantire la governance del PNIEC, ossia una “cabina di regia” presso Palazzo Chigi, non viene nemmeno preso in considerazione, mentre per quanto riguarda la semplificazione degli iter autorizzativi se da un lato il PNIEC analizza le modifiche alle norme vigenti per rendere più spedito l’iter autorizzativo degli impianti e delle infrastrutture richieste, in particolare per il repowering di quelli già in esercizio, non indica gli altri strumenti che potrebbero facilitare il consenso sociale e territoriale, come l’ autoconsumo collettivo e le comunità energetiche. Sulle seconde la posizione del PNIEC è addirittura quella di adottare l’interpretazione più restrittiva di un’indicazione che la nuova direttiva europea RED II sulle rinnovabili mette, non a caso, al condizionale. Eccola: “i membri della comunità non dovrebbero essere esentati da pertinenti costi, oneri, prelievi e imposte di misura adeguata che sarebbero a carico dei consumatori finali che non sono membri di una comunità, produttori in una situazione analoga, o qualora sia utilizzato qualsiasi tipo di infrastruttura di rete pubblica per tali trasferimenti”. Insomma lacci e lacciuoli sembrano essere sulla strada delle comunità energetiche.
Secondo il Coordinamento FREE, la mancanza di visione industriale la troviamo innanzi tutto nel capitolo sul’economia circolare, nel quale non si esplicita che l’attuazione dell’economia circolare richiede la modifica dell’intera filiera di un prodotto, oppure nel fatto che non si usano le fonti rinnovabili per fare politiche industriali.
Sono inoltre assenti nel PNIEC le misure concrete per fare degli investimenti nelle FER il motore di nuove attività industriali o per riconvertire settori colpiti dalla transizione energetica. Emblematico il caso del settore trasporti. In Germania, dove, diversamente dall’Italia, si sono già effettuati rilevanti investimenti per la transizione alla mobilità elettrica, viene richiesto al governo di investire risorse tra i 10 e i 20 miliardi di euro per sostenere la transizione strutturale dell’industria del settore. Tenuto conto del peso che ha in Italia l’indotto nel settore automobilistico, in particolare come fornitore di componenti del diesel per l’industria europea, l’assenza di misure precise rischia di compromettere la più rilevante modifica del PNIEC rispetto agli obiettivi del documento preliminare: il ribaltamento del contributo ai circa 6 milioni di veicoli elettrici in circolazione nel 2030, con una razionale ripartizione, con due terzi di BEV (veicoli elettrici esclusivamente con batterie) e un terzo ibridi plug-in.
Se il PNIEC italiano è l’anticamera di un Green New Deal per il nostro Paese, più che Green sarebbe meglio definirlo un Grey New Deal che guarda al futuro dallo specchietto retrovisore di un’auto endotermica.