Creazione di posti di lavoro, sviluppo delle competenze, sostegno alla bilancia commerciale con l’estero, approvvigionamenti energetici più sicuri, miglioramenti tecnologici, benefici ambientali. Non si può dire che l’industria delle rinnovabili non ce l’abbia messa tutta nel sostenere uno sviluppo e una crescita che il nostro Paese cerca di conseguire da tempo. Né si può negare l’effettiva “utilità pubblica”di certi investimenti che, seppur con notevoli discrasie economiche e politiche, stanno portando a un radicale miglioramento del sistema energetico italiano. Guardando l’altra faccia della medaglia, però, c’è da dire che, come è successo anche in altri Paesi, la policy incentivante non è stata priva di errori e non è riuscita a controllare bene alcune criticità di sistema con cui l’Italia ha dovuto fare i conti in questi ultimi anni: oltre alla crisi finanziaria, l’overcapacity del sistema elettrico e uno sviluppo delle installazioni incontrollato e distante dalle logiche della generazione distribuita. Queste ed altre considerazioni sono state affrontate e discusse ieri, nell’ambito del convegno APER “Rinnovabili: l’energia che cambia”, durante il quale è stato presentato lo studio sui costi e i benefici delle rinnovabili elettriche in Italia.
Lo studio ha preso in esame gli ultimi 4 anni, un periodo peraltro di grande sostegno per lo sviluppo del settore delle rinnovabili nel nostro Paese, e ha calcolato cosa succederà nei prossimi 20 anni a partire da quella che è la situazione attuale. Per chiarirci un po’ le idee e capire meglio alcune dinamiche, siamo andati a parlare proprio con chi questo rapporto l’ha sostenuto, il Presidente di APER e di ASJA Ambiente Italia S.p.A., Agostino Re Rebaudengo, ben consapevole di quanto le rinnovabili siano una realtà e di quanto esse stiano migliorando il sistema energetico italiano, con benefici sempre più evidenti per tutti.
Presidente, come possiamo riassumere la dinamica costi/benefici derivante dallo sviluppo delle FER elettriche dal 2008 al 2011 e perché si arriva a un saldo negativo di quasi 3 mld di euro per il Paese?
La logica legata al fattore “tecnologico” di certi prodotti prevede che a ogni raddoppio della produzione corrisponda una diminuzione del 20% dei costi. La costruzione di un impianto fotovoltaico da 1 MW, per esempio, 4 anni fa costava circa 4,5 milioni di euro, oggi meno di 2, e oltretutto stiamo parlando di un impianto dalle prestazioni nettamente superiori. Mentre sugli aspetti più meccanici, infatti, i costi tendono a diminuire meno perché il raddoppio della produzione si è già ottimizzato e i miglioramenti sono minimi, nel comparto dell’elettronica, invece, la stabilità dei prezzi è associata all’aumento delle performance oppure, a parità di performance, i prezzi sono destinati a calare drasticamente. Pensi a quello che è successo con i telefonini, i computer o i televisori. Nel caso delle rinnovabili, il costo di un nuovo impianto abbinato ai prezzi attuali, quindi senza tenere conto di cosa succederà dal 1 gennaio 2013, dà un risultato assai migliore. A questo si aggiunge la scalata di alcune filiere industriali, penso per esempio agli inverter, alla quadristica elettrica e ad alcuni componenti, che hanno avuto un boom pazzesco: se 4 anni fa in questo ramo produttivo eravamo praticamente a zero, oggi invece siamo diventati uno dei maggiori produttori al mondo. Questo perché una qualunque attività all’inizio necessita di una curva di apprendimento; prima si impara e si ottimizza a costi però superiori, poi si diventa efficienti. Oltre alla motivazione “tecnologica”, c’è anche la questione degli incentivi, che inizialmente sono stati più alti proprio per dare la possibilità al settore di svilupparsi e per questo hanno pesato di più su ogni chilowattora di energia prodotto.
Come cambierà, invece, la situazione nel periodo 2012-2020?
La situazione cambierà e ci porterà ad avere un saldo tra costi e benefici nettamente positivo. È ovvio che il costo di start up del meccanismo vada valutato anche in funzione dei benefici che arriveranno nei prossimi anni. Questo perché per avere una visione complessiva la valutazione di certe manovre va fatta su un range considerevole di anni. A fine 2013 raggiungeremo il pareggio economico tra costi e benefici; da lì in poi avremo profitto, fino ad arrivare al 2030 a 45 miliardi di euro di costi, 124 miliardi di euro di benefici e a un saldo positivo di ben 79 miliardi di euro, dovuto principalmente a un maggiore controllo degli oneri di incentivazione, all’incremento delle esportazioni da parte dell’industria italiana e a notevoli risparmi nell’importazione dei combustibili fossili.
Perché le proiezioni presentate nello studio non hanno fatto riferimento al V Conto Energia?
L’aver preso in considerazione il IV Conto Energia, e non il V, è stata una mossa principalmente cautelativa. Ancora non abbiamo capito bene come funzionerà il nuovo meccanismo incentivante e quindi avremmo solo potuto fare delle ipotesi e non fornire un’idea reale di quelle che sono le prospettive future del comparto. Ma se per assurdo, avessimo considerato l’ultimo testo in vigore, i risultati sarebbero stati ancora più positivi in termini di benefici derivanti da una voce di costo degli incentivi più bassa.
In che modo dovranno porsi le policy di sostegno alle rinnovabili e quale sarà il nuovo modello energetico italiano?
Innanzi tutto dovremmo avere il coraggio di pianificare di più nel nostro Paese, che non significa far decidere alle aziende quello che vogliono, ma definire policy ben precise. È chiaro che se abbiamo assunto l’impegno di rispettare gli obiettivi del Pacchetto Clima-Energia, alcuni paletti sono necessari. Oggi forse bisognerebbe rendersi conto di quella che è diventata la nuova realtà delle rinnovabili, cercare di affrontare quelli che sono i problemi strutturali e decidere che cosa fare sulle vecchie centrali, per non perdere il terreno tecnologico e diventare competitivi. Mai come in questo momento storico le policy devono, da una parte, essere attente e favorire lo sviluppo di una filiera industriale con sufficienti volumi per svilupparsi nel nostro Paese, dall’altra, competere anche sul piano internazionale e affacciarsi su altri mercati. Le politiche stop and go non funzionano; per questo gli incentivi devono essere adeguati all’evoluzione e al miglioramento tecnologico. L’obiettivo deve essere arrivare a un meccanismo che si autoregola che, come un vigile del traffico, adegua gli incentivi all’evoluzione tecnologica degli impianti di produzione, ma continua a svilupparsi. La preoccupazione che abbiamo come produttori è che questi decreti attuativi più che un correttivo costituiscano uno stop e portino a una burocrazia così articolata che di fatto rallenterebbe ulteriormente il processo di avanzamento del settore.