L’analisi del think tank economico Bruegel spiega come i Ventisette possono riuscire a portare rapidamente a zero le importazioni di antracite, greggio e prodotti derivati dalla Russia. E a quali costi
USA e UK hanno già disposto lo stop a petrolio e carbone dalla Russia
(Rinnovabili.it) – L’Europa si sta attrezzando per superare il prossimo inverno anche se la Russia chiuderà i rubinetti del gas. Ma può dire addio in tempi rapidi anche al carbone e al petrolio di Mosca? Finora i Ventisette hanno frenato su questa ipotesi e non hanno seguito Stati Uniti e Gran Bretagna nell’embargo su tutti gli idrocarburi annunciato la settimana scorsa. Eppure si può fare, spiegano gli analisti del think tank economico Bruegel. Non a costo zero, chiaramente: il periodo di transizione sarà “breve e doloroso”, avvertono. Ma se ben gestito, lo stop a petrolio e carbone dalla Russia causerà problemi solo temporanei.
Sul piano della sicurezza energetica, Bruxelles ha reagito all’invasione russa dell’Ucraina con una nuova strategia, il piano REPowerEU, che si concentra sostanzialmente sul gas, sull’efficienza energetica e sulle rinnovabili. La dipendenza dal gas di Mosca (circa il 45% dell’import annuale) è il vero cappio al collo dell’UE, ma anche le importazioni di petrolio (il 30%) e di carbone (ben il 50% del totale) pesano. Se del gas russo l’UE punta a fare a meno in larga parte già entro fine 2022, per carbone e greggio l’orizzonte è più avanti, al 2030. Come può l’Europa permettersi scelte più drastiche e dire stop a petrolio e carbone dalla Russia?
Come dire addio al petrolio di Mosca?
In linea di principio, bloccare le importazioni di petrolio dalla Russia potrebbe essere più semplice rispetto a chiudere la porta al gas di Mosca. La maggior parte delle importazioni di greggio russo, infatti, avviene via mare e non via pipeline. Rimpiazzarlo sarebbe più semplice.
Ci sono però dei colli di bottiglia. Primo, l’infrastruttura europea di pipeline per il greggio è costruita per portare petrolio da est verso ovest, non viceversa. Far arrivare il combustibile in Europa orientale richiede di movimentarlo con trasporto su gomma, rotaia o fiume.
Secondo, le raffinerie: buona parte di quelle UE sono calibrate sulla qualità del petrolio russo e sarebbero meno efficienti con altri tipi di greggio. Le più vulnerabili sono 6 strutture in Polonia, Germania, Repubblica Ceca, Austria, Ungheria e Slovacchia, lungo la pipeline Druzhba.
Terzo, oltre a rimpiazzare il greggio russo c’è da sostituire anche la capacità di raffinazione di Mosca, da cui l’UE ricava diesel, olio combustibile e nafta. La capacità europea basterebbe, ma le raffinerie UE dovrebbero lavorare al 90% (15-16 mln di barili al giorno), quota mai raggiunta da 20 anni a questa parte.
Bisogna poi aggiungere la difficoltà di trovare paesi fornitori disposti ad aumentare la produzione per supplire alle carenze europee. L’Opec potrebbe, teoricamente, sfruttare una spare capacity di 4 mln di barili al giorno (contando anche l’Iran in caso di accordo sul nucleare e fine dell’embargo al petrolio di Teheran). Ma i paesi esportatori hanno mostrato tutta la loro reticenza a giocare questa carta. Non da ultimo perché hanno accordi con la Russia, nel formato Opec+, per gestire in autonomia una quota importante del mercato globale del petrolio. Gli USA dovrebbero poter recuperare con lo shale altri 1,5 mln di barili persi a inizio pandemia. Altrettanti potrebbero arrivare dalla spare capacity di altri paesi dell’area Ocse.
Conclusione: per gli analisti di Bruegel, lo stop al petrolio russo è possibile ma a patto che l’Europa si focalizzi anche su una riduzione della domanda interna. E dovrebbe cambiare approccio: basta sovvenzioni alle categorie più colpite dall’aumento del prezzo del barile, perché alla lunga faranno salire ancora di più i prezzi. “L’attenzione dovrebbe concentrarsi sul taglio proattivo piuttosto che sull’aumento della domanda. Questo calmerà i mercati e permetterà all’offerta e alla domanda di incontrarsi a un prezzo più ragionevole”, spiegano gli analisti. Soprattutto tramite misure per abbattere i trasporti privati, promuovere quelli pubblici, collettivi, e il car-sharing.
Stop al carbone russo
Se il consumo e la produzione domestica di hard coal (antracite) è scesa in Europa in questi decenni, l’import è in crescita: è passato dal 30 al 60% del fabbisogno. La quantità fornita dalla Russia è salita dagli 8 ai 43 mln di t tra 1990 e 2020. In percentuale, è passata dal 7% al 54%. Sulla lignite, invece, l’UE è autosufficiente. La categoria più vulnerabile è il carbone termico (ne prendiamo il 70% dalla Russia) mentre quello metallurgico è meno legato a Mosca (20-30%).
Oltre alla forte dipendenza, c’è un’altra difficoltà: dire addio al carbone russo mentre si tagliano anche gli altri combustibili fossili è una doppia sfida. Infatti, le centrali a carbone europee dovrebbero aumentare l’output per colmare il deficit di elettricità dal gas. E quindi importare più carbone.
Ma su questo fronte c’è una buona notizia: il mercato globale del carbone è abbastanza flessibile da permettere all’UE di rimpiazzare in fretta le importazioni dalla Russia. “È stata solo la spinta aggressiva della Russia nell’ultimo decennio per la quota di mercato nell’UE che ha spinto fuori altri fornitori”, spiegano i ricercatori di Bruegel. E in linea teorica, i paesi che di recente hanno diminuito le forniture di carbone verso l’Europa possono incrementarle in poco tempo. Indonesia, Colombia, Australia, Sudafrica e Stati Uniti sono i paesi a cui guardare.
“Mentre fermare le importazioni di gas russo sarebbe difficile e costoso, ma fattibile, sarà probabilmente meno doloroso per l’UE gestire una completa interruzione delle importazioni di petrolio e carbone russo”, concludono i ricercatori di Bruegel. “Il petrolio e il carbone sono mercati più globali e liquidi del gas, e dipendono meno da infrastrutture rigide come i gasdotti di importazione europei. Tuttavia, questo implica che un’interruzione europea delle forniture russe di petrolio e carbone avrebbe sostanziali effetti secondari globali. L’Europa potrebbe essere colpita duramente da prezzi più alti, ma essendo un continente ricco sarebbe in grado di attirare più petrolio, prodotti petroliferi e carbone, il che potrebbe essere sempre più difficile per le economie emergenti e in via di sviluppo”.