Più di 12 produttori di petrolio hanno deciso di formare il PACE, gruppo di pressione che mira a far saltare il divieto di esportare in vigore dagli anni ’70
Daren Baudo, portavoce di Conoco Philips, una delle aziende che compongono il PACE, dichiara infatti che la possibilità di esportare petrolio è ormai «vitale per la crescita economica del Paese e la sicurezza nazionale, la creazione di posti di lavoro e il rafforzamento della nostra posizione nel mercato globale».
Ma ci sono alcune resistenze, sia dentro i palazzi della politica, sia dentro quelli delle compagnie. Il CRUDE (Consumers and Refiners United for Domestic Energy), un gruppo di 4 raffinatori americani, vorrebbe mantenere il divieto per evitare un aumento dei costi.
Il rischio per i cittadini americani, però, secondo un report diffuso oggi dal Gao (Government Accountability Office), non sussisterebbe: se è vero infatti che l’aumento si verificherebbe – perché il greggio, nel mercato globale, costa di più rispetto al mercato interno – i consumatori vedrebbero invece abbassarsi i prezzi alla pompa. Adesso negli USA siamo sui 101 dollari al barile contro 109 di media globale nel 2014, e con il via libera all’export i prezzi americani salirebbero di 2-8 dollari. Ma il flusso di petrolio a stelle e strisce porterebbe a una maggior disponibilità internazionale, che secondo il rapporto sarebbe all’origine di un calo di spesa per il consumatore.
Restano tuttavia delle incognite: sono in grado i raffinatori di reggere una tale impennata di traffico? Alcuni stanno già avviando modifiche agli impianti, che presto potrebbero permettergli di processare un maggior quantitativo di greggio.
In questa battaglia fra produttori e raffinatori, come sempre, la prima vittima è l’ambiente. Il dossier del Gao lo dice con chiarezza: «Un aumento della produzione di petrolio può mettere a rischio la qualità e la quantità delle acque di falda e di superficie», oltre a provocare «una crescita delle emissioni di CO2 e un maggior rischio di incidenti durante il trasporto».