Non c’è innovazione, tecnologia esponenziale o disruption se non c’è energia. E’ l’energia che consente di mettere in circolo progressi, inventare soluzioni, migliorare la qualità della vita delle persone, favorendo la crescita, lo sviluppo e l’industrializzazione sostenibile dei Paesi, in un’economia sempre più circolare. Così Dario Pagani, Information and Communication Technology Executive Vice President Eni, ha ribaltato i paradigmi delle “exponentials”, nel corso di un appassionante intervento al Summit SingolarityUItaly di Milano, l’importante appuntamento internazionale, dedicato all’applicazione delle tecnologie esponenziali per creare cambiamenti positivi e crescita economica in tutto il pianeta. Le tecnologie esponenziali generano impatti nel mondo in tutti i settori: energia, grandi sfide globali – clima, cibo, salute, istruzione, uguaglianza di genere, sicurezza, infrastrutture, scelte politiche ed etiche –. Tuttavia, suggerisce Dario Pagani, occorre rapportarsi al contesto in cui si opera. In sostanza la domanda è: “Le tecnologie esponenziali sono sempre la soluzione?” Le soluzioni – dice l’Executive Vice President di Eni, “hanno bisogno di essere adattate al contesto. E di tempo per maturare i vari step”. Basti pensare che soltanto 160 anni fa a Ferrera Erbognone , un piccolo centro nei pressi di Pavia, abitavano circa 1000 anime, il 90% delle quali era analfabeta e di salute cagionevole, vista la prossimità della palude. L’elettricità non arrivava sempre. Oggi, quell’ex paesino sperduto è diventato una città, dove è stato costruito il Green Data Center di Eni, una delle più grandi infrastrutture di IT in Europa, grazie a un calcolatore di quarta generazione, l’HPC4, che è il più potente al mondo a livello industriale in termini di capacità di calcolo.
Questa capacità di calcolo supporta le tecnologie esponenziali, i mix energetici, le transizioni energetiche, che vanno dal gas alle rinnovabili alla fusione nucleare, offrendo energia illimitata. Ma occorre ricordare che il supercalcolatore HPC4 “è il mezzo, non lo scopo”, sottolinea Pagani. “Siamo affascinati dalle tecnologie esponenziali, ma ancora in molte parti del mondo disruption è portare l’energia”. A questo proposito, l’esperienza di Marco Rotondi, che ha ricoperto vari ruoli per l’Eni all’estero e oggi è Managing Director nella Repubblica del Congo è illuminante”. Rotondi ha spiegato come soltanto 10 anni fa, nel 2008, in qualità di ingegnere petrolifero a Pointe Noire, in Congo, “la città contasse 700 mila abitanti, ma soltanto due strade fossero illuminate. Su una delle due strade, quella che conduceva all’aeroporto, di sera giocavano a pallone i bambini. Non avendo la luce nelle loro case, che avrebbe permesso loro anche di studiare, stavano per strada. Questo accadeva mentre in Italia sbarcava il primo Iphone”. Ma nel 2008 – sono sempre parole di Marco Rotondi – qualcosa accadde. Fu scoperto un grande giacimento di gas e l’Eni per la prima volta decise di valorizzare il gas non attraverso l’esportazione, ma piuttosto fornendo energia al mercato domestico. Fu costruito un impianto da 300 MW e le linee di trasmissione da Pointe Noire alla capitale del Congo, Brazzaville, installati 7 mila lampioni a Pointe Noire, fornendo circa il 60% dell’energia elettrica al Paese”. Partito dal Congo nel 2010 e ritornato tre mesi fa, Marco Rotondi ha trovato una città completamente cambiata: grazie all’energia elettrica “sono partite molte attività, le realtà imprenditoriali restano aperte più a lungo, i bambini possono ora studiare a casa, gli ospedali funzionano meglio, la salute delle persone è migliorata. L’energia rende possibile il progresso”. Per favorire ulteriormente questa crescita l’Eni ha deciso di potenziare la capacità dell’impianto da 300 a 450 MW e si sta lavorando giorno e notte per arrivare al risultato entro giugno 2019. Grazie a questo ampliamento, sarà fornita circa l’80% dell’energia elettrica del Paese. Tuttavia, a dispetto degli sforzi di Eni per il Congo e per altri Paesi africani, il continente è ancora al buio.
Circa 600 milioni di persone sono senza energia elettrica. Per loro, le tecnologie esponenziali non sono una priorità. Ancora una volta, l’accesso all’energia è essenziale per sviluppare le tecnologie a livello locale. La mancanza di energia genera fame, povertà, disuguaglianze, con conseguenze drammatiche anche per il pianeta. Basti pensare – ha ricordato questa volta Dario Pagani – che in Africa oltre 850 milioni di persone usano biomassa per scaldare le loro case, l’acqua e cucinare, generando emissioni di monossido di carbonio che causano centinaia di migliaia di morti ogni anno, più della malaria. In sintesi, – dice a Rinnovabili.it l’ICT Executive Vice President di Eni– è urgente ridurre questo gap. “Per crescere ognuno ha bisogno di energia. Come compagnia, abbiamo cambiato approccio, passando dallo sfruttamento delle risorse naturali alla destinazione di parte di queste risorse in favore delle comunità locali. Tutti dovremmo impegnarci a facilitare l’accesso all’energia al maggior numero di persone, dove serve maggiore energia, specialmente dove non è accessibile a tutti. Ma per realizzare questo, spiega nell’intervista, “un altro aspetto fondamentale è l’energia delle nostre persone”. A Maker -Faire, la grande manifestazione sull’innovazione che si è svolta a Roma dal 12 al 14 ottobre, l’Eni ha offerto tante opportunità al pubblico di condividere la propria filosofia.
Dr. Pagani, in occasione di SingolarityUsummit si è parlato di economie e tecnologie esponenziali, di circular economy, di economie coordinate e non più collaborative. Tanti temi su cui l’Eni, colosso energetico si vede coinvolto e impegnato. Può illustrarci perché?
Abbiamo partecipato al Summit milanese sulle exponentials perché pensiamo che il tema delle tecnologie esponenziali sia un’opportunità nel capire come trasformare anche il nostro business e farlo evolvere. Ci sono delle direttrici che attraversano il tema dell’economia circolare, per cui occorre trasformare il processo lineare della creazione di valore in un processo dell’economia circolare. Qui le tecnologie possono fare la differenza, penso anzi che lo sviluppo congiunto delle varie tecnologie porti al raggiungimento di tecnologie esponenziali. Al Summit di SingolarityU volevamo portare una versione un po’ disrupting rispetto al contesto, ovvero il fatto che tutta la tecnologia e i modelli più occidentali trovino altri vincoli, quando devono essere applicati a differenti aree geografiche del mondo. Come Eni siamo molto presenti in Africa e chiaramente in Africa alcune delle tecnologie esponenziali che abbiamo visto all’evento milanese – come le tecnologie informatiche che necessitano di infrastrutture – hanno qualche difficoltà ad essere implementate. Di qui, il passo indietro. Prima di queste tecnologie, bisogna riflettere sul fatto che tutte queste tecnologie non possono prescindere dall’energia. Essendo Eni una società energetica, l’attenzione alla trasformazione energetica è fondamentale. Abbiamo mostrato in occasione del Summit di SingolarityU come la trasformazione che si muove dal carbone fino alla fusione magnetica passando attraverso l’utilizzo del gas, che riteniamo sia la fonte fossile più sostenibile, sia il presupposto per poter dare l’accesso all’energia, l’accesso alla tecnologia, l’accesso anche per quei paesi in via di sviluppo. Allora sì che si può parlare di sviluppo sostenibile anche in quelle aree del mondo e di benessere per tutti. L’espressione migliore è “dipende come, dove, quando e qual è l’utilizzo che se ne vuole fare”.
Amin Toufani, docente di Palo Alto e Vice President alla Singolarity University, ha sostenuto che la cosa più difficile nelle economie esponenziali è far imparare alla gente a disimparare, per provare ad imparare con un nuovo modello. E’ un esercizio in cui incombe anche l’Eni, senza necessariamente pensare alle tecnologie esponenziali, e in quale contesto?
Pensare di imparare a fare le cose in modo diverso passa sempre attraverso l’aspetto di cambiamento di mindset e qui scendono in campo sia i DNA degli individui, sia quelli delle aziende, in quanto organizzazioni e organismi. Una società come la nostra con forte imprinting ingegneristico, affiancato a grandi successi, può avere qualche difficoltà a dover mettersi in discussione, a rimettersi in gioco. Tuttavia, qui il tema principale è avere la consapevolezza che la tecnologia è un abilitatore, che passa sempre attraverso le persone, dove si incrociano la volontà, gli stimoli e anche la cultura. Voglio farle un esempio. In Italia il fallimento è vissuto quasi come un lutto, un’onta, una sconfitta, ma il punto è che provare a fare qualcosa mette comunque in campo la possibilità di un fallimento. Dico sempre che ogni volta che siamo sicuri di riuscire in un’iniziativa è come se giocassimo a freccette e le tirassimo soltanto quando siamo sicuri di fare centro. Non funziona così. L’occasione è lavorare sul cambiamento, sulla cultura delle persone, sulle modalità con cui si va avanti, cercando di far capire che è meglio provare a fallire piuttosto che non provare mai. Questo è un aspetto importantissimo. E’ chiaro che con la tecnologia si crea una triangolazione che permette di sperimentare molto velocemente il modo di coordinarsi e di lavorare e in questo caso utilizziamo modi che abbiamo già sperimentato, come quello, che non è una moda, di avere team che lavorano più in modalità Agile (per Agile si intendono modelli di lavoro che sono stati applicati al modo di lavorare nei team. Fra le pratiche promosse dai metodi agili ci sono la formazione di team di sviluppo piccoli, poli-funzionali e auto-organizzati, lo sviluppo iterativo e incrementale, la pianificazione adattiva e il coinvolgimento diretto e continuo del cliente nel processo di sviluppo, ndr). Nel mio ambito, che è quello informatico, siamo forse maggiormente abituati a una tecnologia più disruptive, tuttavia occorre guardare al modello. Un modello in cui si lavora in modo coordinato tutti assieme, per raggiungere un risultato in tempi brevi, può abilitare questo tipo di cambiamento, di generazione di idee, e di conseguenza, cambiare un po’ l’approccio. Non facciamo parlare le organizzazioni, facciamo parlare le persone.
Sulla filosofia del fallimento, Samuel Beckett diceva: sbaglia, sbaglia sempre, sbaglia meglio. Si può affermare che anche sbagliare è un valore?
E’ un modo diverso di vedere quello che è esperienza, che è quella che ti permette di capire, una volta che hai fatto l’errore, che lo hai fatto. Oggi sono cambiati anche i tempi delle rivoluzioni nelle aziende. Trent’anni fa potevamo assistere forse a una o due rivoluzioni, durante il ciclo di vita aziendale. Oggi, da quando si entra in azienda, si vedono quattro o cinque rivoluzioni. Il cambiamento è continuo, ma non sempre è disruptive. Sono abbastanza cauto nel valutare le iperbole che si vedono. Ci deve essere un processo di maturazione, di assestamento. Una iperbole spesso inflazionata è il confronto o lo scontro generazionale, nel cambiamento. Viceversa, è un tema che prescinde dall’età e dipende invece dall’ambiente. Molto spesso sottovalutiamo il fatto che l’ambiente e le situazioni siano un grande abilitatore per poter generare nuove energie.
Sostanzialmente, anche all’interno di Eni, oltre al lavoro di innovazione, si fa un enorme lavoro sul capitale umano e si cerca di stimolare un altro concetto spesso menzionato al Summit, ovvero il quoziente di adattabilità, quasi più decisivo del quoziente di intelligenza…
L’adattabilità delle persone è sicuramente un elemento importante. Molte volte non lo abbiamo insegnato, non lo abbiamo trasmesso come valore. Facendo un parallelismo, spesso anche noi, per dare un messaggio semplice, passiamo il concetto della capacità di calcolo del nostro elaboratore HPC4, che è il più grande calcolatore al mondo a livello industriale. Questo non sarebbe nulla se non avessimo le competenze interne per farlo funzionare. E’ facile dire 22 milioni di miliardi di operazioni al secondo, però se non sapessimo per quale scopo utilizzare questo elaboratore, non servirebbe a nulla. Quindi, l’aspetto centrale non è quello tecnologico – la tecnologia che utilizziamo non è proprietaria, è una tecnologia di mercato, è assemblata -, ma è il fatto che grazie alle nostre competenze interne, ai nostri algoritmi, possiamo sfruttare al meglio questa grande capacità di calcolo.
Questi software sono concepiti in modo sartoriale?
Assolutamente sì, i software per questa tecnologia sono disegnati ad hoc. Per fortuna, anche su questo terreno questa capacità non dipende dagli investimenti, perché se questi fossero lo snodo vincerebbe sempre il soggetto più forte economicamente. Abbiamo tutti visto in questi anni quante aziende tecnologiche sono sparite, mentre ci sono aziende che, con la voglia di ricominciare, sono riuscite a capire come costruire cose nuove. L’insegnamento è che occorre reinventarsi, stimolarsi, cercare di capire cosa poter fare e adattarsi al contesto.
Come favorite la formazione e il quoziente di adattabilità dei vostri giovani?
Come Eni, sentiamo la responsabilità, anche dal punto di vista del Paese, di dare accesso ai nostri giovani, alle nostre persone di potersi confrontare con la tecnologia. Il rischio che io vedo è un po’ questo: che l’Italia, in un mondo globale, si trasformi in un paese di soli consumatori. Sicuramente può essere un ruolo, ma è anche un’occasione persa, se consideriamo il potenziale e le intelligenze che abbiamo. Basti pensare alla fuga dei cervelli.
Che cosa occorre fare per invertire questo trend?
Il tema è questo. Bisogna creare infrastrutture. Se non si creano infrastrutture, è difficile che si possano sfruttare al meglio le opportunità che la convergenza delle tecnologie esponenziali offre. Il problema è l’infrastruttura: scuola, università, pubblico, privato, ma anche regole certe. Quando l’Eni arriva in un paese come il nostro, ma anche in altri paesi, sapere di avere regole certe consente di capire che tipi di investimenti fare nel tempo, al riparo da cambiamenti delle regole del gioco durante la partita, perché altrimenti tutto diventa molto complicato. Per fare interventi strutturali, c’è bisogno di un perimetro di regole ben definito, in un periodo medio-lungo.
Tornando al messaggio che l’azienda vuole far arrivare, in che modo tutte le conoscenze, i nuovi approcci,il modo di declinare disruption e innovazione, entrano nello spazio della” circular Eni” che portate alle manifestazioni?
Partiamo da un esempio, che attira sempre nei nostri stand, ed è la realtà virtuale. Per noi la realtà virtuale è uno strumento, che ci permette di sviluppare la massima attenzione sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e dei lavoratori, senza dover esporre i nostri operatori a rischi. Attraverso la realtà virtuale abbiamo la possibilità di fare del training o fare in modo che in modo cooperativo, coordinato, un operatore possa essere assistito in remoto da uno specialista, che anche in questo caso lo aiuta a non commettere errori. Per noi la tecnologia ha un aspetto fondamentale, che è quello di diminuire il rischio industriale. E’ chiaro che in questo caso non stiamo inventando nulla, stiamo applicando la tecnologia dei videogiochi al mondo industriale, ma questo ci serve a sviluppare quella che è la memoria muscolare dei nostri operatori in casi di emergenza, che è fondamentale. Ad esempio, abbiamo dei training virtuali in cui si mostra come si può spegnere un incendio in un impianto, o come si può gestire l’evacuazione di un impianto in caso di una emergenza. Sviluppare questa memoria muscolare è molto importante, per preparare le persone a reagire in caso di eventi non riproducili realisticamente.
In quale altro ambito è possibile applicare la realtà virtuale?
Cito solo due applicazioni. E’ possibile vedere come saranno gli impianti prima della loro realizzazione, oppure, grazie alla nostra capacità di supercalcolo possiamo ricostruire in 3D i giacimenti. Il tema della realtà virtuale è molto importante su salute, sicurezza, rischio industriale e formazione. Fra l’altro, se si pensa che con la rivoluzione tecnologica, siamo arrivati ad avere una portabilità assoluta delle soluzioni anche in mobilità, per noi che siamo presenti in più di 70 paesi, significa avere una velocità di cambiamento in formazione di tutte le nostre persone. E’ chiaro che, anche se molti software si ispirano al gaming che vediamo utilizzare nelle nostre case, la complessità degli ambienti in cui operiamo complica non poco le cose, modifica la connettività, esponendo a problemi, anche di sicurezza. Esistono situazioni in cui i devices devono essere certificati anti deflagranti. Ma, ancora una volta, c’è l’idea e poi va contestualizzata, sia che si tratti di una tecnologia wearable , sia che si tratti di fare un impianto dove non esiste infrastruttura. E’ una bella sfida.