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Italia fuori dalla Carta dell’Energia: ecco i veri perchè

Ragioni di spending review? Niente affatto. Il governo ha annunciato l’uscita dalla Carta dell’Energia in seguito a dinamiche più complesse. Ecco quali

Italia fuori dalla Carta dell’Energia ecco i veri perché

 

(Rinnovabili.it) – L’Italia si ritirerà dal Trattato sulla Carta dell’Energia entro la fine del 2015, diventando il secondo Paese – dopo la Russia – a voltare le spalle a questo strumento multilaterale. In una analisi pubblicata sull’ultimo numero del magazine GAR (Global Arbitration Review), si indagano le ragioni della decisione e gli scenari futuri.

Risale alla fine di aprile la comunicazione del Segretariato della Carta dell’Energia – organismo con sede a Bruxelles che controlla l’attuazione del Trattato – relativa al ritiro italiano dall’accordo del 1994. Lo prevedeva la Legge di stabilità 2015, approvata il 23 dicembre dello scorso anno, anche se il dibattito attorno al tema era passato inosservato. Tuttavia, il 30 dicembre scorso, lo Stato italiano ha notificato l’intenzione di recedere dall’ECT al governo portoghese, depositario del trattato.

 

L’ECT è stata approvata dopo la caduta della cortina di ferro, con il fine di promuovere la cooperazione energetica (e, si sperava, il livellamento economico) tra i Paesi dell’Europa occidentale e quelli dell’ex Unione Sovietica. La Russia però ha annunciato il suo ritiro nell’ottobre 2009, dopo che gli ex azionisti di maggioranza della Yukos Oil Company hanno usato il meccanismo di risoluzione delle controversie (ISDS) del trattato per chiedere e ottenere dallo Stato, davanti a un arbitrato internazionale, il più grande risarcimento della storia di questo opaco sistema: 50 miliardi di euro. Una multa pesantissima, subìta anche se il Paese aveva firmato ma mai ratificato l’accordo.

 

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L’intricato caso italiano

Il caso dell’Italia, secondo l’analisi della GAR, è differente e più complesso. Vi sarebbero diverse motivazioni: ad esempio la paura di essere colpiti da richieste di danni da parte degli investitori (come infatti è successo per il decreto Romani e capiterà probabilmente per lo Spalma Incentivi), o anche l’avversione dell’opinione pubblica nei confronti del meccanismo ISDS (considerato antidemocratico e non trasparente). Non è da scartare, inoltre, la probabile percezione di una irrilevanza dell’accordo dopo l’uscita di un player importante come la Russia. La ragione ufficiale, invece, è un semplice taglio dei costi: ritirandosi dall’ECT, l’Italia ha accampato la scusa della spending review. La quota annua versata dai membri, tuttavia, ammonta a circa 400 mila euro. È difficile credere che l’abbandono del trattato si spieghi con la sola necessità di ridurre le spese. E anche la paura di nuove denunce all’arbitrato è in apparenza una motivazione debole: infatti, la Carta dell’Energia resterà a garanzia degli investimenti esteri in Italia per 20 anni dopo l’ufficiale uscita dall’accordo. Ciò significa che le aziende potranno citare il nostro Paese in giudizio anche dopo il 2015. Tuttavia, sarà politicamente meno doloroso far digerire all’elettorato le eventuali sanzioni: il governo potrà sempre rivendicare il merito di aver messo fine ad un sistema iniquo.

 

Un governo amico dell’arbitrato

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La commissaria Ue al Commercio, Cecilia Malmström

In ogni caso, non bisogna pensare che il governo, e in particolare il ministero dello Sviluppo economico, siano contrari all’ISDS. Ne sono anzi dei convinti sostenitori in seno ai negoziati su TTIP e CETA, i trattati di libero scambio che l’Unione europea sta cercando di chiudere rispettivamente con Stati Uniti e Canada. Proprio come l’ECT, essi contengono, al momento, un analogo sistema di risoluzione delle controversie fra investitore e Stato, che permette alle aziende estere di fare causa ai governi presso Corti private, le cui riunioni avvengono a porte chiuse e le sentenze sono inappellabili. A causa della forte mobilitazione delle campagne Stop TTIP, le trattative sul meccanismo ISDS nell’accordo USA-Ue sono congelate da più di un anno. Nel frattempo, la commissaria al Commercio, Cecilia Malmström, ha proposto di cambiare il sistema introducendo uno strumento più trasparente, che preveda udienze aperte, corti arbitrali pubbliche e possibilità di appello. La proposta è stata raccolta il 10 luglio dal Parlamento europeo, ma non modifica la struttura di base dell’ISDS. Resta infatti la possibilità, per gli investitori esteri, di bypassare le corti nazionali ricorrendo all’arbitrato, che fino ad oggi ha emesso verdetti considerando come unico parametro il danno economico (reale o potenziale) arrecato dallo Stato alle aziende. Non sono state tenute in conto eventuali violazioni dei diritti umani o civili da parte dei privati. Questo sistema, sebbene esista una proposta di riforma, manca ancora delle garanzie necessarie per scongiurare i rischi più gravi. E in definitiva continua a fornire un vantaggio competitivo all’investitore estero nei confronti di quello locale, che non può avvalersi dell’ISDS.

La posizione italiana va letta alla luce dell’uso estensivo che le nostre aziende hanno fatto del meccanismo. Sono 30 le cause – tra pendenti e concluse – intentate presso l’ICSID (Corte arbitrale della Banca mondiale) ai governi di Albania, Argentina , Bangladesh, Egitto, El Salvador, Georgia, Honduras , Libano, Mongolia, Romania e Sud Africa. L’Italia, secondo i dati UNCTAD (la Conferenza ONU sul commercio e lo sviluppo), è il sesto Paese tra quelli che più si sono avvalsi dell’ISDS a livello mondiale dopo USA, Olanda, Regno Unito, Germania, Canada e Francia.

 

Carta dell’Energia: ne usciamo per una questione politica?

Fonti del ministero dello Sviluppo economico hanno spiegato come lo Stato ritenga che la decisione finale della Russia di non ratificare il trattato sulla Carta dell’Energia, unita all’adesione all’Unione europea di molti Paesi ex comunisti dell’Europa centrale e orientale, abbia privato l’accordo della sua importanza strategica dal punto di vista puramente politico.

Allo stesso tempo, il ritiro dell’ Italia si motiva con il disaccordo rispetto al contrasto che i casi di arbitrato intra-Ue innescano con i principi fondamentali del diritto dell’Unione. La lesione, in particolare, si concretizzerebbe nei maggiori diritti di cui gli investitori di alcuni Stati godono, grazie all’ISDS della Carta dell’Energia e di altri trattati bilaterali, rispetto a quelli provenienti da altri Paesi dell’Unione all’interno di un mercato unico che non dovrebbe discriminare. Non è un caso che l’Italia abbia rescisso 11 trattati bilaterali intraeuropei sugli investimenti, siglati con Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Romania, Slovacchia e Slovenia. Resta in piedi solo un accordo con la Polonia.

 

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Nonostante le pressioni della Commissione europea, infatti, i tribunali arbitrali hanno continuato ad arrogarsi la competenza giurisdizionale in casi di ricorso agli ISDS inseriti negli accordi bilaterali intraeuropei. Il loro ragionamento è lineare: se il meccanismo esiste, perché non sfruttarlo, visto che nei fatti arricchisce la lobby degli arbitri e degli avvocati? Anche se confligge con il diritto dell’Unione, il sistema può agire al di fuori di esso finché gli Stati non scelgono l’extrema ratio e rescindono i trattati che lo legittimano.

Dal Segretariato dell’ECT si dicono fiduciosi che l’Italia tornerà all’ovile, data l’adesione di 72 Paesi del mondo al trattato dopo una conferenza tenutasi all’Aja lo scorso maggio. Tra questi, 25 sono nuovi entrati, fra cui colossi come Cina e Stati Uniti, i maggiori produttori mondiali di energia.

 

Alcuni nodi andranno sciolti: servirebbe un chiarimento su chi ha la competenza delle decisioni in materia di investimenti diretti esteri nell’Ue dopo il Trattato di Lisbona 2009, che ha modificato la base costituzionale dell’Unione. È in capo alla Commissione europea, agli Stati membri o – come ritiene l’Italia – a tutti e due i livelli istituzionali? Una risposta la potrà dare soltanto la Corte di giustizia europea, incaricata da Bruxelles di sciogliere questo nodo relativamente al trattato di libero scambio fra Ue e Singapore.