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Transizione ecologica, l’idrogeno funzionerà davvero?

Vettore energetico, combustibile per applicazioni residenziali impiegato puro o mescolato con il gas naturale. Che spazio avrà l’idrogeno nella Transizione ecologica? Ci aiuterà a ridurre le emissioni? Ecco il quarto e ultimo episodio dello speciale sull’H2

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di Matteo Grittani

(Rinnovabili.it) – Idrogeno sì, idrogeno no? Idrogeno nì. Come sempre accade parlando di approvvigionamento, sicurezza, efficienza delle fonti e delle tecnologie energetiche, una risposta semplice non esiste. È spesso più adatto un razionale “dipende”; un principio che vale anche per l’idrogeno, molecola di cui molti in questo periodo hanno parlato, ma di cui pochi sembrano aver compreso davvero limiti e potenzialità. Con i tre speciali precedenti sull’H2 abbiamo cercato di far luce sul tema, per quanto possibile.

Il primo episodio sottolineava che la quasi totalità (95%) dell’H2 oggi prodotto è “grigio”, cioè generato a partire da fonti fossili tramite le reazioni di reforming del metano e di gassificazione del carbone. Processi molto energivori che emettono grandi quantità di CO2. La seconda puntata si è concentrata invece sull’autotrazione, proponendo un confronto tra l’efficienza e la convenienza tra un’auto elettrica e un’auto a Fuel Cell. Il duello è stato vinto in maniera netta dalla prima. Con il terzo episodio invece, abbiamo cercato di identificare alcune aree – poche, ma dall’impatto ambientale significativo – in cui l’H2 potrebbe giocare un ruolo da protagonista nella Transizione ecologica dei prossimi anni.

Oggi, con la quarta e ultima tappa del focus, metteremo meglio a fuoco due applicazioni dell’idrogeno (forse quelle di cui più si è discusso): l’accumulo energetico da un lato, e dall’altro il miscelamento con il gas naturale nelle linee di gas esistenti, insieme all’impiego residenziale per cucinare e scaldarsi. L’approccio, così come è successo per i precedenti episodi, è puramente tecnico e ha come scopo valutare la convenienza e l’affidabilità dell’H2 in ambito energetico, in relazione a ciò che la chimica e la termodinamica permettono.

E’ probabile che l’idrogeno come storage energetico non funzionerà

Per capire perché, è necessario introdurre il concetto di Round Trip efficiency (RTe). La RTe non è altro che un rapporto tra due quantità di energia: quella ceduta dall’accumulo in fase di scarica e quella accumulata nella fase di carica. Si tratta di un fattore fondamentale per stimare quanto sia performante un accumulo energetico; affinché l’idrogeno possa davvero giocare un ruolo cruciale per l’energy-storage del futuro, la sua RTe deve essere il più elevata possibile. Vediamo allora alcuni numeri per quantificarla. Ipotizziamo di avere una certa quantità di energia elettrica messa a disposizione da una turbina eolica; per accumularla per mezzo dell’idrogeno, sarà necessario trasformarla tramite una Polymer Electrolyte Membrane (PEM), una cella elettrolitica.

All’interno della PEM avviene l’elettrolisi dell’acqua: in poche parole, si genera idrogeno a partire da acqua ed elettricità secondo la reazione H2O -> H2 +1/2 O2. Avevamo elettricità, ora abbiamo idrogeno. Ma la reazione, come tutte le altre reazioni dell’universo, non è avvenuta “gratis”: per far sì che si verifichi, dobbiamo spendere una certa quota di energia che non recupereremo mai. Il processo descritto ha quindi un’efficienza massima raggiunta in laboratorio dell’86%, ma con applicazioni industriali arriva solo all’80%. Ciò significa che circa il 20% dell’energia che avevamo in partenza va persa nella reazione. L’idrogeno così ottenuto potrà essere riutilizzato quando avremo bisogno nuovamente di energia. Ma l’H2, per essere stoccato e trasportato in sicurezza, va ancora compresso in appositi tank a pressioni molto elevate (300 – 700 bar).

Nei processi di compressione e successiva distribuzione nei punti dove si ritrasformerà in elettricità pronta all’uso, si hanno ulteriori perdite che possono superare anche il 10% dell’energia inizialmente a disposizione. A questo punto serve solo un ultimo passaggio: quello che riconverte l’H2 immagazzinato in energia elettrica. Il meccanismo è del tutto analogo a ciò che accade con un barile di petrolio o una caldaia a gas: il greggio e il metano sono combustibili, ovvero energia “in potenza”, latente, che può essere sprigionata tramite la loro combustione in qualsiasi momento in cui l’utilizzatore ne abbia bisogno.

Per l’H2 succede lo stesso: viene di fatto “bruciato” all’interno di una Fuel Cell, che lo converte in elettricità, con il dettaglio (non trascurabile) che la sua combustione non genera anidride carbonica. Anche quest’ultimo step ha una efficienza che descrive quanta energia va persa nella cella a combustibile; considerando la tecnologia attuale, questo valore arriva al 60%. Per stimare quindi la Round Trip efficiency dell’idrogeno come accumulo energetico basta una semplice moltiplicazione tra tutte le efficienze dei tre diversi processi di trasformazione subiti dall’energia iniziale: il passaggio da elettricità a idrogeno, poi la compressione e la distribuzione e di nuovo il passaggio da idrogeno a elettricità. Si ha quindi RTe = 80%*90%*60% = 43%. Ciò significa che più della metà dell’energia che la nostra turbina eolica aveva prodotto è andata persa, in accordo con i due Principi della Termodinamica.

Riassumendo, si può dire che l’idrogeno è (purtroppo) un metodo di storage altamente energivoro, specie se confrontato con i metodi che oggi dominano il mercato: le batterie agli ioni di Litio, le redox-flow e l’idroelettrico di pompaggio. Sia le batterie, che il cosiddetto pumped-hydro (l’accumulo di energia potenziale attraverso il pompaggio di acqua a monte delle dighe sfruttando periodi di picchi di produzione energetica e bassi costi del kWh elettrico) offrono Round Trip efficiency superiori all’80%. E lo fanno a costi quasi sempre molto minori rispetto all’idrogeno. Non c’è modo di aggirare queste differenze tanto sostanziali, visto che lo sviluppo tecnologico non potrà garantire all’idrogeno un miglioramento delle efficienze tali da ricucire il distacco. Insomma, basandosi su questi e altri concetti, secondo la maggior parte degli operatori e delle istituzioni che operano nel settore, l’accumulo energetico del futuro non sarà dominato dall’idrogeno, bensì da tecnologie quali batterie agli ioni di Litio per periodi brevi di carica e scarica (la finestra delle 4/8 ore), mentre le redox-flow e l’idroelettrico di pompaggio si imporranno su quelli lunghi.

Ci sono buone probabilità che l’idrogeno come storage energetico non funzionerà.

E’ probabile che pompare idrogeno nei gasdotti esistenti e nelle abitazioni non funzionerà

Per capire perché, va prima di tutto definito il concetto di “embrittlement”. L’embrittlement, o infragilimento da idrogeno è un processo che colpisce acciai ad alta resistenza, leghe di nichel e titanio, infragilendoli. In breve, gli atomi di H2 diffondono nelle minuscole cavità del metallo e si ricombinano per formare molecole biatomiche. Questo fenomeno produce pressione nelle cricche e rende il metallo soggetto a frattura. Non esistono a oggi stime precise dei danni che produrrebbe il pompaggio di idrogeno mescolato al gas naturale nelle tubazioni dei gasdotti esistenti.

Se dovessimo farlo, solo il 20% delle linee europee sarebbe adatto e non sarebbe soggetto a degrado, percentuale che scenderebbe addirittura al 4% in quelle nordamericane. In altre parole, pompare H2 per mitigare il carico “fossile” del metano e utilizzare la miscela risultante per applicazioni residenziali e industriali potrebbe avere effetti deleteri sui gasdotti esistenti; per evitarli, si dovrebbero sostituire le linee attuali con altre specifiche (ad esempio utilizzando materiali rinforzati con fibre a matrice polimerica), adatte a muovere H2 e resistenti all’embrittlement, che però costano di più.

Per quanto riguarda invece le applicazioni residenziali dell’idrogeno (riscaldamento, cucina, etc.), andrebbe nuovamente fatto un confronto con i suoi diretti competitori. L’elettrificazione delle nostre città sta procedendo lenta ma inesorabile: piastre a induzione e pompe di calore sono già oggi solide realtà e saranno sempre più diffuse nei prossimi anni, vista la loro efficienza energetica ed economicità. Al contrario, l’unica applicazione su larga scala dell’impiego residenziale dell’H2 è l’esperimento pilota di Scotia Gas Networks (SGN), azienda britannica distributrice di energia che nel complesso di Levenmouth nella costa Est della Scozia si propone di alimentare con idrogeno verde prodotto da elettrolisi circa 300 famiglie entro l’anno prossimo.

Il progetto sta inabissandosi perché i generatori a idrogeno non esistono su scala commerciale e per questo, esattamente come le auto a H2, costano molto di più dei loro omologhi sul mercato che sfruttano tecnologie diverse. Come se non bastasse, sono poche le linee guida finora pubblicate che ne regolamentano la produzione. SGN prevede di terminare il progetto nel 2027 e solo allora si capirà se l’H2 residenziale “in pratica” potrà avere un futuro. Ma il cambiamento climatico impone tempi molto più stretti. Insomma, ci sono buone probabilità che pompare idrogeno nei gasdotti e nelle abitazioni non funzionerà.

Nonostante da questo mini ciclo di articoli sull’idrogeno, la molecola biatomica non sembrerebbe uscir bene, sarebbe del tutto sbagliato non considerarla affatto per aiutarci a mitigare la Crisi climatica. Le applicazioni possibili ci sono e andranno sfruttate. Ma ancor prima di pensare e poi sviluppare nuove tecnologie, il ciclo dell’idrogeno deve essere oggi “riformato” e reso sostenibile. Per produrre i circa 70 milioni di tonnellate di H2 annue, vengono liberate 830 milioni di tonnellate di anidride carbonica in atmosfera – l’equivalente delle emissioni di Regno Unito e Indonesia combinate. Trasformare questa quota di idrogeno ricavato da fonti fossili e altamente carbon-intensive in H2 “verde”, ovvero derivato dall’elettrolisi dell’acqua sfruttando elettricità rinnovabile, deve essere il primo e più razionale obiettivo in un contesto di seria Transizione ecologica