L’idrogeno sembra essere il protagonista della transizione energetica che sarà. Almeno in Europa. Ma il clamore e i toni dei media e delle istituzioni europee verso questa tecnologia sono come minimo scientificamente esagerati. Ecco tutti i limiti per ora non risolti imposti dalla chimica e dalla termodinamica
di Matteo Grittani
(Rinnovabili.it) – Un solo protone attorno a cui ruota un elettrone, indeterminatamente come disse Heisenberg. La sua disarmante semplicità chimica ha assicurato all’idrogeno (H2) il primo posto nella tavola periodica di Medeleev e potrebbe in futuro tornare utile per produrre energia in maniera non dannosa per l’ambiente. Ma sostenere come da mesi stanno facendo media ed istituzioni europee – e in particolare nel nostro Paese – che l’H2 sarà la chiave di volta per la transizione energetica nei prossimi anni è quantomeno illusorio, oltre che tecnicamente sbagliato; almeno alle condizioni attuali. In questo focus dedicato alla molecola biatomica più piccola in natura cercheremo di capire a più riprese il perché. Nel primo e presente articolo partiremo dalle basi: la produzione di H2 e la sua carbon footprint, ovvero la quantità di gas serra emessi “generandolo”, che come vedremo è molto elevata.
Due tipi di idrogeno: grigio e blu a partire dalle fossili
Prima di tutto, pur essendo l’elemento chimico più abbondante dell’Universo, usufruire dell’idrogeno per produrre energia non è affatto semplice. Può sembrare controintuitivo, ma è necessario prima produrlo tramite processi chimici. Ciò che spesso viene omesso quando si esalta la hydrogen economy è che questa serie di trasformazioni emettono grandi quantità CO2 – le si definisce per questo altamente carbon intensive. Questo perché l’idrogeno è “estratto” da combustibili fossili, prevalentemente metano (CH4) e carbone (C). Vediamo i numeri; la quasi totalità dell’H2 è prodotta artificialmente tramite due fondamentali reazioni: lo Steam Methane Reforming (SMR), e il Water Gas Shift (WGS).
Per l’SMR primario vale CH4 + H2O → CO + 3H2 e per la WGS successiva vale CO + H2O → CO2 + H2. Semplificando, partiamo da reagenti come metano (CH4), monossido di carbonio (CO) e vapore acqueo (H2O) per arrivare al prodotto voluto, l’idrogeno, ottenendo però anche anidride carbonica (CO2) come sottoprodotto. Dalla stechiometria segue che per ogni chilo di H2 ottenuto a partire dal gas naturale (CH4), si liberano dai 6 ai 12 chili di CO2, tenendo conto anche di altre reazioni minori di reforming secondario, che comunque avvengono. Insomma, avevamo metano ed ora abbiamo idrogeno e CO2.
Un altro processo chimico che produce H2 è la gassificazione del carbone che – semplificando nuovamente – può essere riassunta nelle due reazioni: C + H2O → CO + H2 e CO + H2O ⇄ CO2 + H2. Ogni chilo di idrogeno prodotto con gassificazione emette fino a 18-20 chili di CO2. Per capire meglio cosa significano esattamente queste cifre, il kg di idrogeno ottenuto è equivalente in termini energetici a 3.2 kg di benzina per autotrazione, che emetterebbero con la combustione nel motore interno dell’automobile circa 9 kg di CO2. Ciò significa che allo stato attuale della tecnologia (e non considerando a valle nessun processo di cattura del carbonio), l’idrogeno ottenuto chimicamente a partire da fonti fossili – detto idrogeno grigio – ha un’impronta di carbonio addirittura più alta dei combustibili fossili che vorrebbe sostituire.
L’idrogeno blu (quota nettamente minoritaria del mercato) è anch’esso generato a partire da gas naturale o carbone, con la sostanziale differenza che l’anidride carbonica viene immagazzinata tramite processi di Carbon Capture and Sequestration (CCS).
L’idrogeno verde a partire dall’H2O
Come visto, l’impiego dell’idrogeno presenta alcuni vincoli non superati (e nemmeno superabili almeno per ora), perché legati alla sua natura chimica e termodinamica. Problematiche ulteriori riguardano i costi di produzione e la logistica, ma li affronteremo nei prossimi articoli. Rimane da esaminare l’ultima tipologia di H2, l’idrogeno verde. Verde di nome e di fatto, in quanto viene prodotto tramite elettrolisi. In breve, due moli di acqua si dissociano nei loro elementi costitutivi secondo la reazione 2H2O → 2H2 + O2. La dissociazione elettrolitica è una reazione non spontanea in quanto i prodotti hanno uno stato termodinamico più elevato rispetto ai reagenti; per questa ragione va fornita energia elettrica per sostenere il fenomeno. Ciò significa che la condizione necessaria affinché l’H2 prodotto con elettrolisi sia realmente “verde”, è che l’energia elettrica utilizzata per la dissociazione dell’acqua sia proveniente da fonti rinnovabili. Cosa che almeno ad oggi succede raramente.
Riassumendo: l’idrogeno grigio ha intensità di carbonio (quantità di CO2 equivalente per essere prodotto) addirittura talvolta maggiore dei combustibili fossili, mentre l’idrogeno blu non avrà mercato finché sarà più conveniente produrre il grigio – e quindi fintanto non saranno fissati prezzi più elevati per l’emissione di CO2 da processi chimici e industriali in atmosfera. Ciò potrà avvenire, almeno a livello UE, solo e soltanto riformando seriamente l’Emission Trading System. L’idrogeno verde ha invece un potenziale innegabile e potrà senza dubbio fare la sua parte in un contesto di transizione energetica seria e sostenibile. Sarà fondamentale però assicurarsi che l’elettricità usata per far sostenere l’elettrolisi sia davvero green. Qualsiasi sarà il ruolo dell’idrogeno nel sistema energetico dei prossimi anni, nulla ha a che vedere con i roboanti titoli di giornale visti finora e meno ancora con gli eccessivamente ambiziosi piani energetici europei da cui l’H2 esce come la panacea di tutti i mali climatici ed energetici. Nel corso dei prossimi articoli lo considereremo “laicamente”, senza farci fuorviare dall’hype scientificamente infondato da cui è circondato, cercando di evidenziarne pro e contro.