di Matteo Grittani
(Rinnovabili.it) – Negli scorsi due articoli di questa serie sull’idrogeno, abbiamo fatto un breve excursus sulla tecnologia per poi provare a dimostrare che – contrariamente ad auspici di media e policymaker – il potenziale indubbio dell’idrogeno non è così semplice da dispiegare. In dettaglio, con il primo episodio ci siamo concentrati sui vincoli intrinseci, legati alla natura chimica e termodinamica della molecola biatomica, mentre con il secondo abbiamo proposto un confronto ad armi pari nel campo dei trasporti: auto a idrogeno (Fuel Cell Electric Vehicle) vs la tecnologia più matura e già diffusa dell’auto elettrica a batterie; duello vinto nettamente dalla seconda. Con questa puntata ci concentreremo sulle applicazioni in cui l’idrogeno avrà in futuro più probabilità di svilupparsi, rendendo – come vedremo – sostenibili processi dall’elevatissimo impatto ambientale.
Nuovi processi industriali e acciaio low carbon
Già oggi l’H2 è un fondamentale prodotto di cui la filiera industriale e chimica globale non può fare a meno: il 98%, della quota totale prodotta va a finire lì. Un mercato enorme, che valeva 117.5 miliardi di dollari nel 2019. Come già ricordato, la parte del leone dell’idrogeno “creato” ogni anno (creato, perché H2 sulla Terra non esiste allo stato puro, ma si soltanto in forma combinata con altri elementi chimici), è “estratta” da fonti fossili tramite le reazioni di steam reforming, water-gas shift e gassificazione del carbone. Eliminare questa quota di idrogeno cosiddetto “grigio” e trasformarla tutta in idrogeno “verde” (ovvero prodotto tramite elettrolisi), è il primo grande obiettivo razionale e auspicabile.
Nessun nuovo progetto o concetto: si tratterebbe semplicemente di rivoluzionare un processo industriale energivoro, poco efficiente e soprattutto enormemente impattante sull’ambiente. Una manovra che permetterebbe di evitare ogni anno ben 820 milioni di tonnellate di CO2 emesse in atmosfera (il 2.3% di quelle totali). L’H2 viene utilizzato per produrre leghe ed acciai, vetri, componenti per l’elettronica, così come in tutti quei processi di lavaggio, mordenzatura, e altre reazioni chimiche che se ne servono come reagente. Passare da idrogeno realizzato a partire da metano e carbone, a quello “elettrolitico” per questa gran varietà di impieghi industriali è allo stato attuale l’opportunità di mercato più concreta per la “hydrogen economy”.
Ma come fare? La riduzione del minerale del ferro in acciaio è un processo altamente carbon-intensive, anche se le emissioni specifiche di anidride carbonica per chilogrammo di acciaio prodotto varia significativamente di paese in paese in funzione del grado di avanzamento tecnologico delle tecniche di produzione. Per avere un’idea, gli ultimi dati disponibili stimano 2148 kg di CO2 emessi per ogni tonnellata di crude steel prodotta in Cina, che diventano 1708 in Germania e 1736 negli Stati Uniti.
Differenze tanto marcate si devono come detto alle diverse lavorazioni impiegate, e in particolare al grado di diffusione dei forni ad arco elettrico (EAF) – metodo per fondere i rottami o il materiale preridotto, relativamente meno inquinante e più efficiente. Utilizzare l’H2 per produrre acciaio abbasserebbe certamente l’intensità del carbonio. E ci sono già alcuni esempi in giro per il mondo. Nel sud-est della Bassa Sassonia tedesca, la città di Salzgitter ospita un primo impianto realizzato da Siemens Gas and Power. L’acciaieria di Salzgitter Flachstahl GmbH utilizza un elettrolizzatore da 2.2 MW per produrre idrogeno con Pem (Proton exchanged membrane) alimentate da sette turbine eoliche da 30 MW.
Ma non c’è solo l’acciaio e ciò che ruota intorno alla sua lavorazione: un altro processo industriale in cui l’idrogeno green potrebbe portare benefici dirompenti sulle emissioni è quello della produzione di bicarbonato. Con il metodo più diffuso al mondo, il Solvay, oggi insieme a una sola tonnellata di NaHCO3, ne vengono prodotte 2.74 di anidride caroìbonica. Rendere sostenibile con H2 da elettrolisi tutta la filiera delle reazioni chimiche che producono bicarbonato sarebbe un’altra grande opportunità (realistica) – per un mercato che vale attualmente 6.7 miliardi di dollari.
Navigazione su lungo raggio
Sono 5.200 le navi da carico che ogni anno solcano mari e oceani per portare merci da un capo all’altro del Pianeta. L’economia globale poggia sui conteiner e sulla navigazione a medio e lungo raggio, rappresentando oltre l’80% degli scambi in termini di volume e circa il 70% in termini di valore, secondo la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo. Il combustibile utilizzato oggi dalla maggior parte delle grandi navi merci è il cosiddetto bunker oil, un idrocarburo ad elevata viscosità con un global warming potential (GWP) di 4.470 (ciò significa che crea effetto serra quasi 4.500 volte di più della CO2, n.d.r.). Come affermano tutti i più grandi player del trasporto marino e dell’energia, è probabile che in futuro i viaggi merci a breve e media distanza via mare saranno in prevalenza su navi elettriche a batteria, e non utilizzeranno tecnologie diverse. E in effetti sono già attivi alcuni traghetti passeggeri a corto raggio, che si prestano ad essere ricaricati agilmente nei porti.
Il primo battello completamente elettrico, l’Ampere, lungo 80 metri, percorre ben 34 volte la tratta Lavik-Oppedal, sul fiordo norvegese di Sognefjord – il più lungo della penisola scandinava. La nave monta batterie agli ioni di litio dalla capacità equivalente a quelle che alimenterebbero ben 1.600 automobili. Applicazioni analoghe con tecnologie relativamente mature si possono trovare in Germania e Cina. Ma le batterie al litio non possono oggi garantire lunghe autonomie, ed è qui che l’H2 potrebbe giocare un ruolo cruciale. Con grandi motori a Fuel Cell, le batterie lascerebbero posto al carburante, l’idrogeno, immagazzinato nelle stive dei bastimenti ed utilizzato durante il viaggio. Un primo esempio di “nave a idrogeno” (con doppio motore diesel di back-up) è Hydroville, un battello che trasporta 16 passeggeri tra i comuni belgi di Anversa e Kruibeke. Molti altri progetti sono in fase di studio, e nonostante si tratti di una tecnologia difficile da sviluppare, senza dubbio è anche una delle più concrete applicazioni che potrebbe avere l’idrogeno su larga scala.
Voli a lungo raggio
Così come per le grandi navi cargo, il trasporto aereo esercita un enorme impatto sul global warming. Basti pensare che nel 2018, i settori passeggeri e merci insieme hanno emesso in atmosfera 1.04 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, il 2.5% del totale. Man mano che ci si avvicina alla stratosfera, la CO2 emessa ha effetti ancora più rapidi e dirompenti. Impatti che si scaricano poi sull’atmosfera; gli aeroplani al loro passaggio rilasciano infatti le cosiddette contrails (o scie di condensazione), che hanno un’elevata forzante radiativa – ovvero la misura di quanto un fattore climatico alteri il bilancio energetico della terra e di fatto influenzi il climate change.
Come se non bastasse, le contrails emettono a loro volta ossidi nitrosi, composti che aumentano ulteriormente l’Effetto Serra. Una combinazione letale per l’ambiente, che imporrà necessariamente al trasporto via di trasformarsi e rendersi sostenibile: l’obiettivo dovrebbe essere minimizzare le contrails da un lato, e dall’altro ridurre a zero le emissioni. Lo scenario più attendibile per motivi di efficienza energetica e di fattibilità economica che non approfondiamo, è che per raggiungerlo ci serviremo ancora una volta del binomio elettricità + batterie, specie per i voli a corto e medio raggio. I voli a lungo raggio invece, avranno il problema della densità energetica – cioè necessiteranno di grandi quantità di energia elettrica per volare migliaia di chilometri. E ciò significherebbe batterie di maggior capacità, peso e ingombro e renderebbe la soluzione elettrica a batterie meno profittevole e fattibile.
L’idrogeno è un’alternativa potenzialmente buona, ma ancora molta ricerca dev’essere portata avanti. La start-up britannico/statunitense ZeroAvia è stata fondata proprio con l’intento di azzerare le emissioni dei voli commerciali tramite lo sviluppo di propulsori a idrogeno. A settembre dello scorso anno, ZeroAvia ha portato a termine il primo volo alimentato a idrogeno sui cieli inglesi di Bedfordshire. L’azienda sostiene che entro il 2023 sarà in grado di far volare “a idrogeno” i primi 20 passeggeri lungo un tragitto di 500 miglia (804 km) e soprattutto ha pianificato entro il 2027 di avere tecnologia sufficiente per alimentare aerei di più elevate dimensioni, fino a 100 passeggeri. Tutti i progetti sono finanziati da importanti investitori globali come Amazon e Shell, o realizzati in partnership con British Airways, per un valore complessivo, aggiornato a dicembre 2020, di circa 50 milioni di dollari.