Produrre idrogeno da acqua e sole, due approcci tecnologici
Produrre idrogeno verde sfruttando l’energia solare “in situ” rappresenta uno dei più importanti obiettivi nel campo delle tecnologie per l’H2. In questo settore esistono essenzialmente due approcci: quello indiretto in cui una cella fotovoltaica è accoppiata a un elettrolizzatore; e uno diretto in cui sono impiegati fotoelettrodi per combinare le funzioni di assorbimento della luce ed elettrocatalisi all’interno di singole celle fotoelettrochimiche (PEC – photoelectrochemical cell).
Non esiste una strada migliore dell’altra ma esistono vantaggi e svantaggi che il mondo scientifico sta cercando rispettivamente di aumentare o risolvere per accelerare la diffusione dell’idrogeno pulito. In questo articolo approfondiremo le ultimi novità in materia di PEC, a partire dall’efficienza di conversione sole-H2 e dai progressi più promettenti nel campo.
Come funzionano le celle fotoelettrochimiche PEC
Le celle fotoelettrochimiche non sono altro che celle solari in grado di convertire facilmente l’energia solare in energia chimica. Sono composte da:
- un elettrodo di lavoro;
- un controelettrodo;
- un elettrolita a base d’acqua;
- un elettrodo di riferimento (facoltativo).
L’elettrodo di lavoro, detto anche fotoanodo, è normalmente un semiconduttore di tipo n o p, e può assorbire la luce per generare portatori di carica.Il controelettrodo può essere in platino o senza platino, ad esempio in nanotubi di carbonio a parete multipla (MWCNT).
Nella produzione di idrogeno la tecnologia – ribattezzata anche “foglia artificiale” – opera a livello generale al pari di quella elettrolitica tradizionale, spezzando i legami delle molecole d’acqua (H2O) per rilasciare H2 e O2 gassosi. Quando la luce illumina il fotoanodo, gli elettroni sulla banda di valenza vengono eccitati alla banda di conduzione, lasciando una lacuna dietro di sé. Il processo attira anche gli elettroni delle molecole d’acqua portando alla formazione di protoni (H+); quest’ultimi vengono ridotti al controelettrodo per formare H2, mentre le lacune al fotoanodo ossidano i gruppi OH- generatisi per formare O2.
Celle fotoelettrochimiche per l’Idrogeno, vantaggi e svantaggi
Nonostante la prima cella fotoelettrochimica della storia, che non era altro che la prima cella fotovoltaica, fu progettata nel lontano 1839, la tecnologia applicata all’idrogeno deve i suoi più grandi successi solo all’ultimo periodo storico. Oggi le celle PEC più potenti raggiungono un rendimento del 19% e appare evidente come il margine di miglioramento sia ancora ampio.
Nonostante ciò offrono già diversi vantaggi. Innanzitutto, la stretta integrazione dell’assorbitore di luce con l’elettrocatalizzatore in una cella PEC migliora notevolmente la gestione termica del sistema. Senza contare che qualsiasi incremento di temperatura ridurrà sia la tensione termodinamicamente richiesta per la scissione dell’acqua, che la cinetica della reazione elettrochimica e il trasporto di massa nell’elettrolita. Inoltre i dispositivi PEC mostrano densità di corrente operativa molto più basse (10–20 mA/cm2) rispetto agli elettrolizzatori ad acqua commerciali (0,5–2 A/cm2).
Gli svantaggi della scissione fotoelettrochimica dell’acqua? La mancanza di stabilità a lungo termine a causa della fotocorrosione di alcuni fotoanodi e la criticità di alcuni processi di rivestimento e fabbricazione.
Tecnologia PEC, gli ultimi progressi per l’idrogeno solare
Come migliorare ulteriormente il funzionamento delle celle fotoelettrochimiche nella produzione di idrogeno verde? In aiuto arriva la ricerca dell’Helmholtz-Zentrum Berlin für Materialien und Energie (HZB). Il gruppo di scienziati si è focalizzato sulle perdite di efficienza del processo dovute alla formazione di bolle.
Nel dettaglio, le bolle disperdono la luce e impediscono un’illuminazione ottimale del fotoelettrodo. Inoltre possono impedire il contatto dell’elettrolita con la superficie dell’elettrodo e portando alla disattivazione elettrochimica. Per ridurre al minimo queste perdite, sarebbe utile ridurre la dimensione delle bolle facendo funzionare il sistema a una pressione più elevata. Ad oggi, tuttavia, tutti i sistemi PEC funzionano a pressione atmosferica (1 bar).
Celle PEC sotto pressione
I ricercatori dell’Istituto per i combustibili solari dell’HB hanno studiato la scissione dell’acqua a una maggiore pressione in condizioni rilevanti per la PEC. Hanno posizionato celle elettrochimiche a flusso a una pressione compresa tra 1 e 10 bar e registrato vari parametri durante l’elettrolisi.
Inoltre, hanno sviluppato un modello multifisico del processo e lo hanno confrontato con i dati sperimentali a pressione normale ed elevata. Questo modello permette ora di giocare con i parametri e individuare le leve decisive. “Ad esempio, abbiamo esaminato come la pressione operativa influisce sulla dimensione delle bolle di gas e sul loro comportamento sugli elettrodi“, afferma il Dr. Feng Liang, primo autore del lavoro pubblicato su Nature Communications.
Le perdite di energia possono essere dimezzate
L’analisi mostra che aumentando la pressione di esercizio a 8 bar si dimezza la perdita di energia totale, il che potrebbe portare a un aumento relativo del 5-10% nell’efficienza complessiva. “Le perdite di scattering ottico possono essere quasi completamente evitate a questa pressione”, spiega Liang. “Abbiamo anche visto una significativa riduzione del crossover del prodotto, in particolare il trasferimento di ossigeno al controelettrodo”.
A pressioni ancora più elevate, tuttavia, non vi è alcun vantaggio, quindi il team suggerisce 6-8 bar come intervallo di pressione operativa ottimale per gli elettrolizzatori PEC. “Questi risultati, e in particolare il modello multifisico, possono essere estesi ad altri sistemi e ci aiuteranno ad aumentare l’efficienza dei dispositivi sia elettrochimici che fotocatalitici”, afferma il Prof. Roel van de Krol, che dirige l’Institute for Solar Fuels presso HZB.
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