(Rinnovabili.it) – Tutto è pronto in Tajikistan per realizzare il nuovo gigante energetico della nazione. Parliamo della mega diga idroelettrica Rogun, faraonico progetto del valore di quasi 4 miliardi di dollari. Con una potenza stimata di 3,6 GW, in pratica l’equivalente di tre reattori nucleari, l’impianto dovrebbe entrare parzialmente in funzione entro il 2018 con l’obiettivo, spiega il governo di Rakhmon, di porre rimedio alla crisi energetica del Paese. Ma per quella che a regime sarà la diga idroelettrica più alta al mondo – un colosso di 335 metri in tutto – si prospettano giorni non facili. Perché? Per diversi motivi, a cominciare dal fatto che la realizzazione di quella che molti oggi chiamano la “Tour Eiffel tagika”, è da tempo al centro di un’accesa disputa tra Uzbekistan e Tajikistan.
Il progetto di Rogun prevede la deviazione (già iniziata lo scorso sabato) del flusso del fiume Vahsh, importante affluente dell’Amu Darya che segna il confine tra i due Paesi. La presenza della diga potrebbe ridurre sensibilmente la capacità del corso d’acqua, minacciando di conseguenza il fabbisogno idrico dell’Uzbekistan, che dipende dall’Amu Darya anche per l’irrigazione delle sue colture agricole. Motivo per il quale il governo di Tashkent si è sempre opposto al progetto.
In realtà la centrale risale addirittura ad un piano sovietico del 1959, concepito per far fronte ai problemi di approvvigionamento della regione. I lavori iniziarono nel 1976 e continuarono fino al 1991, anno del crollo dell’URSS. La costruzione ricominciò negli anni immediatamente successivi alla dichiarazione d’indipendenza, ma la parziale distruzione causata dal diluvio del 1993, i tira e molla con la Russia e l’attesa della valutazione da parte della Banca Mondiale nel 2012 (finanziatore chiave degli studi tecnico economici ed ambientali effettuati) hanno di fatto congelato i lavori fino ai tempi più recenti. A luglio di questo anno la realizzazione è stata affidata all’italiana Salini Impregilo, siglando un accordo con Ojsc “Rogun Hydropower Project” (la società controllata dal governo che coordina l’intero progetto) del valore di 3,9 miliardi di dollari. L’attuale piano prevede di avere due delle sei turbine previste, istallate e funzionanti entro il 2018.
Ma molti punti rimangono incerti. La diga Rogun è essenziale per ridurre l’instabilità energetica del Paese, e la possibilità di vendere il surplus alle nazioni limitrofe (Pakistan e Afghanistan si sono già offerti di acquistare una parte dell’energia prodotta) permetterebbe al Tajikistan di divenire punto di riferimento nella regione. Se da un lato non ci sono dubbi in merito all’importanza economica e politica del completamento della diga, dall’altro però il forzato trasferimento in massa delle persone che questo tipo di progetti richiede, rappresenta un aspetto molto delicato. E lo è ancor di più per un Paese afflitto da una devastante crisi economica e che ha sperimentato in prima persona una guerra civile con una forte componente interregionale.
I primi spostamenti sono iniziati tra il 2009 e il 2010: un totale di 1.500 famiglie sono state già riassegnate a nuovi distretti abitativi e altre 40mila persone potrebbero ora essere costrette ad abbandonare la propria casa, con la ripresa dei lavori. Ma stando a quanto denuncia Human Rights Watch, nonostante gli impegni presi per conformarsi alle norme internazionali in materia di reinsediamento, il governo non avrebbe in passato fornito alle famiglie sfollate la necessaria compensazione per sostituire le loro abitazioni o ripristinare i loro mezzi di sussistenza. Molte famiglie riportano di aver subito gravi difficoltà nell’accesso agli alloggi, cibo, acqua, e istruzione. E senza una politica coordinata ed efficace il reinsediamento che rispetti le esigenze delle popolazioni colpite, la costruzione della diga potrebbe portare a conseguenze disastrose dal punto di vista dell’equilibrio interregionale.