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Sistemi a ciclo organico per ridurre l’impatto ambientale della geotermia

Una possibile via per ridurre l’impatto ambientale degli impianti geotermici è quello di utilizzare i cicli binari a fluido organico. Accoppiati alla completa reiniezione di gas non condensabili possono giocare un ruolo importante nel miglioramento della sostenibilità del settore

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di Lorenzo Talluri

(Rinnovabili.it) – In seguito al recente accordo di Parigi, del dicembre 2015, che ha stabilito come obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura mondiale al di sotto di 2°C e di proseguire gli sforzi per mantenere tale valore a 1.5°C, l’Unione Europea si è posta come traguardo un impatto climatico zero entro il 2050.

La diffusione delle energie rinnovabili è quindi uno degli obiettivi principali della politica internazionale per i prossimi anni. Tra le “rinnovabili”, l’energia geotermica ha il vantaggio di avere la più alta disponibilità della risorsa, non dipendendo dalle condizioni meteorologiche. 

L’energia geotermica è accumulata o generata nella massa della Terra sotto forma di calore. Il suo sfruttamento è attualmente limitato ai sistemi idrotermali (nuovi sistemi sono in fase di sviluppo per utilizzare il calore presente nelle “rocce calde secche”), nei quali coesistono un’intrusione magmatica che funge da sorgente termica, una massa d’acqua sotterranea (generalmente di origine piovana, infiltrata in profondità in tempi tipici di centinaia di anni) che funge da fluido termovettore, una roccia serbatoio che la contiene (spesso di natura più o meno porosa) e una copertura di roccia impermeabile che ne impedisce la dispersione. L’acqua calda – spesso in condizioni pressurizzate considerata l’elevata profondità – viene estratta ed utilizzata per generare energia elettrica o calore.

La geotermia può essere classificata in base alla profondità di estrazione in “superficiale” e “profonda”. La prima sfrutta fonti di calore a bassa temperatura presenti in superficie – con una massima profondità dei pozzi dell’ordine di 250 metri – ed è adatta alla generazione di calore a bassa temperatura. 

Si parla di geotermia “profonda” quando i pozzi sono perforati in profondità, da 1 a 5 km all’interno della Terra, o anche più in profondità con le più recenti tecnologie di perforazione. Questa permette di raggiungere una temperatura più alta, che permette la conversione del calore geotermico in elettricità per via termodinamica, con rendimenti interessanti (15-25% inteso come rapporto tra potenza prodotta e flusso di calore prelevato dalla risorsa). 

Un altro modo di classificare le centrali geotermiche è quello di catalogarle in base al livello di temperatura: bassa, media o alta. Le risorse a media e alta temperatura sono le più comunemente sfruttate e hanno quasi raggiunto il loro massimo potenziale, mentre i campi a bassa o moderata temperatura devono ancora essere pienamente utilizzati.

Le centrali tipiche per lo sfruttamento dei campi a media-alta temperatura sono le centrali a flash singolo, doppio e triplo (per i serbatoi ad acqua dominante) e le centrali a vapore diretto (per i serbatoi a vapore dominante). Queste centrali hanno diversi vantaggi come: rendimenti di conversione relativamente alti, diversi anni di operatività che hanno portato a un solido know-how, misure di sicurezza ben note e non critiche grazie alle basse pressioni e temperature coinvolte, ed attrattività economica per gli investitori. In queste centrali si raggiungono valori del costo di produzione dell’elettricità compresi tra 4 e 8 c€/kWh, che sono competitivi sia nel contesto delle rinnovabili che nel confronto con molte fonti fossili.

D’altra parte, le centrali a flash od a vapore diretto presentano svantaggi in termini di sostenibilità ambientale; infatti, una questione rilevante e documentata è il rilascio nell’ambiente di gas non condensabili (principalmente CO2, con possibili contaminanti in piccole quantità a seconda della natura della risorsa). La soluzione attuale applicata in Italia con successo per ridurre l’impatto ambientale della geotermia è l’utilizzo della tecnologia AMIS, sviluppata da ENEL GP. Questo permette di ridurre il contenuto di Hg e H2S dal flusso di gas non condensabili, riducendo l’impatto ambientale delle centrali.

Sono stati sviluppati diversi studi sulla sostenibilità ambientale dei sistemi di conversione dell’energia geotermica, in particolare attraverso l’applicazione dell’analisi del ciclo di vita (Life Cycle Analysis). In Basosi et al., 2020, viene valutato e confrontato un impianto da 20 MW a singolo flash con impianti di dimensioni simili operanti con l’eolico e il solare. Il risultato dell’analisi è che la centrale geotermica, che include la tecnologia AMIS, ha un impatto ambientale paragonabile alle altre energie rinnovabili analizzate (solare ed eolico); l’impronta ambientale risulta leggermente più alta nella categoria del riscaldamento globale, ma tutte le rinnovabili risultano competitive rispetto all’attuale mix energetico italiano della produzione elettrica, ancora basato sui combustibili fossili per oltre il 60%.

Una possibile via per ridurre l’impatto ambientale degli impianti geotermici è quello di utilizzare i cicli binari. Questi (realizzati attraverso gli impianti a fluido organico – ORC) accoppiati alla completa reiniezione di gas non condensabili possono giocare un ruolo importante nel miglioramento della sostenibilità ambientale delle centrali geotermiche, soprattutto nella fase operativa. L’effettiva possibilità di praticare la reiniezione dei gas nei diversi contesti geologici e geotermici è ancora da dimostrare, ma l’avanzamento della conoscenza scientifica nel campo della CCS (Carbon Capture and Sequestration) favorisce l’applicazione nei sistemi idrotermali, dove la miscela di acqua e CO2 può agevolare la penetrazione e cattura nelle rocce porose.

Altro settore che aiuta in questa direzione è quello dell’Oil&Gas, dove l’iniezione di CO2 nei pozzi è praticata da tempo con soluzioni tecnologiche avanzate per aumentare l’estrazione di gas e petrolio. E’ importante rendersi conto che queste soluzioni sono attualmente in fase sperimentale, e non sono oggi alternative praticabili in alternativa alle tecnologie consolidate: gli sviluppi delle ricerche e le prime dimostrazioni sono però molto promettenti (es. progetti europei H2020 CarbFix, GECO ed altri).

Gli impianti binari utilizzano circuiti chiusi nei quali evolve un fluido di lavoro che opera in una serie ciclica di trasformazioni termodinamiche e che non viene mai direttamente in contatto con la fonte termica, che in questo caso è il fluido geotermico. La maggior parte dei cicli binari installati sono a fluido organico (ORC).

I cicli ORC lavorano con fluidi nuovi ed ecologici (basso GWP), adatti allo sfruttamento delle risorse a bassa temperatura. Infatti, negli ultimi decenni questa nuova tecnologia, basata su composti organici fluidi, che sono caratterizzati da una temperatura e una pressione di saturazione più basse e da una massa molecolare più alta rispetto all’acqua, è diventata la tecnologia più utilizzata per una vasta gamma di applicazioni dove il calore e/o la temperatura dalle fonti di energia sono limitati, come le applicazioni di recupero del calore residuo (WHR) o la generazione di energia da energie rinnovabili, in particolare la geotermia.

I cicli ORC si basano sul ciclo termodinamico sviluppato da W. Rankine (Ingegnere e fisico scozzese) per le macchine a vapore. Il ciclo si divide in 3 fasi principali. La prima riguarda lo scambio di calore tra il vettore termico ed il fluido organico, con generazione di vapore in pressione. La seconda riguarda la generazione di energia meccanica grazie al passaggio del vapore in pressione all’interno della turbina. L’energia meccanica è successivamente convertita in energia elettrica grazie al generatore elettrico. La terza fase riguarda il recupero dell’energia termica a bassa temperatura, nel rigeneratore e nel condensatore. Figura 1, mostra lo schema di impianto di un ciclo organico alimentato da una fonte geotermica.

Figura 1 – Schema Impianto ORC geotermico

Il primo concetto della tecnologia ORC fu sviluppato da T. Howard nel 1826 [6], realizzando un sistema per produrre 18 kW di energia con etere come fluido di lavoro. Dopo la prima scintilla, la tecnologia ORC iniziò ad essere ampiamente studiata, ma all’inizio fu confinata a mercati di nicchia, poiché le condizioni di sicurezza delle centrali non erano adeguate. Pertanto, ci volle un intero secolo prima che il primo esempio di ORC “moderno” fosse realizzato da D’Amelio all’Università di Napoli. In particolare, l’ORC sviluppato utilizzava l’energia solare come fonte di calore per una turbina monostadio funzionante con cloruro di etile come fluido di lavoro. Infine, è negli anni ’60 che l’ORC fiorisce definitivamente grazie al lavoro di ricerca di Tabor e Bronicki (fondatore di Ormat technologies) al National Physic Laboratory in Israele e di Angelino, Macchi e Gaia (quest’ultimo fondatore di Turboden Ltd.) al Politecnico di Milano. 

ORMAT fu fondata nel 1964 e Turboden nel 1970. Queste due aziende sono ancora oggi tra i maggiori attori del mercato ORC. In anni più recenti sono nate molte nuove aziende – tra quelle italiane, Exergy. Come si può notare dalla Fig 2, Ormat è il leader negli ORC e la principale applicazione a cui è associata questa tecnologia è proprio quella della conversione di energia nelle centrali geotermiche (soprattutto negli USA dove la capacità totale installata di impianti ORC geotermici è di circa 750 MW).

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Figura 2 – Quota di mercato degli ORC (in MW di energia prodotta) per applicazione e per produttore. Credits:
“Tartière T., Astolfi M., “A Word Overview of the Organic Rankine Cycle Market”, in: Energy Procedia, 129, 2–9, 2017“.