La tecnologia “CO2 plume geothermal” (CPG) permette di stoccare CO2 nel sottosuolo e produrre energia geotermica
di Martina Leveni
(Rinnovabili.it) – Nello storico Accordo di Parigi del 2015, la comunità internazionale si è impegnata a limitare il riscaldamento globale entro il 2100 a ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali e a proseguire gli sforzi per mantenere il riscaldamento al di sotto di 1.5 °C. Tuttavia, le emissioni annuali di gas serra attualmente continuano ad aumentare, raggiungendo quasi i 40 GtCO2 all’anno [1], rendendo questi obiettivi sempre più difficili da raggiungere nel tempo e rallentando gli sforzi intrapresi per la mitigazione del cambiamento climatico.
Pertanto, due delle sfide più urgenti che i sistemi energetici devono affrontare sono la riduzione della quantità di anidride carbonica (CO2) emessa nell’atmosfera e l’aumento dell’integrazione e utilizzo delle energie rinnovabili. Questi due obiettivi possono essere raggiunti contemporaneamente utilizzando la tecnologia “CO2 plume geothermal” (CPG). La CPG permette non solo di stoccare CO2 nel sottosuolo, ma anche di produrre energia geotermica, aumentando la produzione di elettricità da fonti geotermiche e riducendo contemporaneamente le emissioni di CO2. In questi sistemi di conversione dell’energia geotermica, infatti, la CO2 stessa è usata come fluido di estrazione del calore.
Originariamente l’utilizzo della CO2 per estrarre calore è stato proposto per i sistemi EGS (Enhanced geothermal systems, sistemi geotermici migliorati) dove la bassa permeabilità tipica delle cosiddette “rocce calde” viene aumentata artificialmente grazie alla fratturazione idraulica e/o altre tecniche quali stress termici e trattamenti chimici. La tecnologia CPG si differenzia dai sistemi EGS poiché non necessita di fratturazione idraulica dal momento che i bacini sedimentari sono naturalmente porosi e permeabili.
Come funziona la CPG? Si inizia con la cattura della CO2 da fonti come, ad esempio, le centrali termoelettriche alimentate da combustibili fossili. Successivamente la CO2 è iniettata in acquiferi salini profondi (1.5-5 km) dove si riscalda grazie al calore della Terra. Una parte di essa viene poi estratta ed utilizzata per mettere in moto una turbina. Quest’ultima è collegata ad un generatore elettrico per produrre elettricità. Una volta attraversata la turbina, la CO2 ormai raffreddata viene nuovamente re-iniettata nel bacino sedimentario. Questa tecnologia utilizza una configurazione dei pozzi denominata a “5-spot invertita”, dove i pozzi di produzione (ovvero da cui si estrae la CO2) si trovano agli angoli di un quadrato di 1 km per 1 km e il pozzo di iniezione si trova al centro.
Questi bacini sedimentari sono confinati grazie alla presenza di formazioni a bassa permeabilità come la roccia di copertura o il basamento. Al contrario dei sistemi geotermici tradizionali, i bacini sedimentari sono maggiormente diffusi a livello mondiale e attualmente sono target per lo stoccaggio della CO2 (carbon capture and storage, CCS). Ciò costituisce un vantaggio per l’implementazione e diffusione di entrambe le tecnologie riducendo i costi delle stesse, e creando un sistema integrato di cattura, stoccaggio e utilizzo della CO2.
L’utilizzo della CO2 rispetto ai fluidi geotermici tradizionali, come acque idrotermali con elevata concentrazione salina, può presentare dei vantaggi: la densità della CO2 varia maggiormente con la temperatura e ciò genera un effetto di termo-sifonamento tra i pozzi iniettori e i pozzi di produzione che permette di ridurre i consumi legati al pompaggio in superficie del fluido. Inoltre, la CO2 come fluido di lavoro limita e/o diminuisce le reazioni chimiche tra il fluido e la roccia dei serbatoi geotermici. Ciò a sua volta riduce o elimina le incrostazioni minerali nei pozzi e condotti e permette di re-iniettare il fluido a temperature inferiori rispetto ai sistemi geotermici tradizionali. In aggiunta, la sua minore viscosità riduce le perdite di pressione all’interno del serbatoio.
Recenti studi [3] hanno evidenziato che i sistemi a CO2 diretti (ovvero la CO2 espande direttamente in un espansore, come in Figura 1) producono più energia rispetto ai sistemi ad acqua tradizionali che impiegano un ciclo organico di Rankine per la conversione di energia (attuale tecnologia per lo sfruttamento di risorse a temperatura medio-bassa). I sistemi diretti a CO2 riescono a produrre potenza netta fino a 1.5 km di profondità del serbatoio geotermico e una potenza netta costantemente maggiore rispetti a sistemi ad acqua tradizionali fino a profondità di circa 3.5 km. Ad una profondità di 5 km e un gradiente geotermico di 50 °C/km, i sistemi a CO2 diretti hanno prodotto tra i 0.7 MWe e i 9.0 MWe di potenza netta in più. Un altro fattore che influisce sulla produzione di potenza è il diametro dei pozzi di iniezione e di produzione. Come ci si può aspettare, all’aumentare del diametro dei pozzi aumenta la produzione di potenza e questo effetto è maggiormente accentuato all’aumentare della permeabilità del serbatoio geotermico.
Non solo, numerose soluzioni per integrare CPG con fonti ausiliare di calore quali altre energie rinnovabili, ad esempio l’energia solare, e con il calore di scarto industriale sono in continua evoluzione. Il potenziale di questa nuova tecnologia è ormai riconosciuto, ma una cosa è certa, per la sua effettiva implementazione, adeguate politiche energetiche per lo stoccaggio e l’utilizzo della CO2 saranno necessarie in tempi brevi.