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Contro il fracking in Tunisia il ritorno di fiamma della primavera araba

Contro il fracking in Tunisia il ritorno di fiamma della primavera araba

 

(Rinnovabili.it) – La protesta contro il fracking si allarga alla Tunisia. Il 7 giugno migliaia di cittadini sono scesi in strada nella centralissima avenue Bourguiba di Tunisi al grido di “winou el petrole?” (dov’è il petrolio?). Dopo l’Algeria, che nei primi mesi dell’anno era stata scossa da imponenti manifestazioni per l’avvio della fratturazione idraulica nei pozzi di In Salah, adesso è la società civile tunisina a salire sulle barricate.

 

Tutto inizia il 6 maggio con un annuncio del ministro dell’Energia, Zakaria Hamad: via libera per il pozzo di gas naturale e petrolio di el-Faouar, nel governatorato meridionale di Kebili. Il giacimento inizierà a produrre dal 2016 e le concessioni per l’area sono divise equamente tra la compagnia olandese Mazarine Energy Tunisia e l’Etap, l’azienda petrolifera statale. Le previsioni si attestano su 4.300 barili di greggio e 400 metri cubi di gas al giorno. Non sono cifre notevoli, neppure per un Paese come la Tunisia, dove le miniere di fosfato e il turismo contano ben di più dei proventi degli idrocarburi. La produzione attuale infatti è di circa 55.000 barili al giorno e 7 milioni di metri cubi di gas l’anno, briciole rispetto a giganti come l’Algeria o gli stati del Golfo, ma comunque abbastanza per soddisfare il fabbisogno energetico nazionale.

 

Contro il fracking in Tunisia il ritorno di fiamma della primavera araba -

 

Ecco perché i cittadini in Tunisia sono contrari al fracking

Altri progetti, in calendario da diversi anni e in fase di avviamento nel giro di qualche mese, pesano molto di più. Ad esempio uno stabilimento nell’estremo sud della Tunisia, a Nawara, che pesca dall’immenso bacino di Ghadames (a cavallo fra Algeria e Libia), entro ottobre 2016 porterà la produzione annua di gas a 10 milioni di metri cubi. Allora perché le proteste scatenate da el-Faouar?

Per comprendere lo stato d’animo dei molti tunisini scesi in piazza bisogna considerare un intreccio di fattori. Prima di tutto la produzione di idrocarburi e il modello di sviluppo che il governo Essid, insediatosi nel 2014, ha in mente. Sotto il regime di Ben Ali la produzione era ben maggiore, con un picco di 120mila barili al giorno alla fine degli anni ’80. Poi un lento declino e la caduta verticale degli ultimi anni. Ma diversi studi pubblicati a partire dal 2013 indicano che il sottosuolo tunisino racchiude ben 651 miliardi di metri cubi di gas di scisto e 1,5 miliardi di barili di petrolio bituminoso tecnicamente estraibili. Cifre che fanno gola al governo, silenziosamente all’opera nella distribuzione delle concessioni. Ma la scelta obbligata è il fracking. Così nella testa di molti cittadini si fa strada questo ragionamento: perché investire a scapito dell’ambiente e della salute, se abbiamo già la quantità di energia che ci serve? E come saranno ripartiti i proventi?

 

Algeria terzo mese di proteste anti fracking_

 

Nasce il Forum mediterraneo contro il fracking e il gas di scisto

La Tunisia evidentemente paga gli effetti dell’inquinamento e della disattenzione sanitaria che deriva dalle miniere di fosfati. Storica ricchezza e fonte di lavoro per gli abitanti del sud, ma anche la loro unica alternativa. Per questo, nella nuova Costituzione del 2014, sono stati inseriti articoli che tutelano (almeno sulla carta) l’ambiente, misure così avanzate da competere tranquillamente con le legislazioni europee più attente. Ma la fiducia nelle istituzioni è poca. Così “winou el petrole?” racchiude anche le proteste contro la corruzione, la disoccupazione galoppante e l’arretratezza in cui a tutt’oggi è lasciato il sud.

La frizzante società civile tunisina si è mossa in fretta. A metà maggio a Bizerte è stato fondato il Forum mediterraneo contro il fracking e il gas di scisto, che ha subito cercato di saldarsi con i manifestanti algerini di In Salah e con l’UGTT, il potentissimo sindacato che fa man bassa di consensi fra i minatori di Gafsa e Sidi Bouzid (già in sciopero da mesi). Il manifesto prodotto dal Forum vuole promuovere la “giustizia climatica”, mette l’accento sui diritti economici e sociali delle popolazioni locali, chiede maggiori poteri di controllo sullo sfruttamento delle risorse comuni e più trasparenza nelle istituzioni.

 

Ma c’è anche una faccia violenta delle manifestazioni. Già a maggio si sono verificati duri scontri con la polizia durante i cortei. In risposta, a el-Faouar la caserma è stata data alle fiamme, stessa sorte toccata poco dopo a quella di Douz e ancora il 7 giugno a quella di Souk Lahad. I manifestanti danno la colpa a provocatori e infiltrati, mentre il governo cerca di gettare acqua sul fuoco dicendosi disponibile ad ascoltare le rivendicazioni. Per il momento, però, non c’è nessun cambio di rotta all’orizzonte.

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