(Rinnovabili.it) – L’Algeria entra nella corsa allo shale gas. A fine dicembre la Sonatrach, l’azienda statale degli idrocarburi, ha annunciato l’avvio delle attività di fracking nel primo pozzo esplorativo realizzato a In Salah, città della provincia meridionale di Tamanrasset nel cuore del Sahara algerino. È il primo passo che il gigante dell’energia maghrebino compie in direzione dello sfruttamento di risorse non convenzionali.
I 4 mesi di lavoro necessari al completamento del pozzo-pilota, ribattezzato AHT1H1, sono serviti anche per ottenere una stima più accurata delle riserve di gas presenti nel bacino dell’Ahnet. I dati hanno superato le aspettative. Secondo gli ingegneri della Sonatrach, l’estensione totale del bacino è di 100mila km2 e contiene almeno 200mila miliardi di metri cubi di gas. Solo il 10% del gas, cioè circa 20mila miliardi di metri cubi, sarebbero sicuramente estraibili. Il progetto prevede la realizzazione di cinque pozzi in totale e immetterà il gas sul mercato solo fra 3 anni. La costosa tecnologia richiesta dal fracking è disponibile grazie all’investimento della francese Total, partner della Sonatrach nell’operazione.
Le stime delle riserve presenti nel bacino dell’Ahnet sono giudicate promettenti dal ministro dell’Energia algerino Youcef Yousfi, che ha ipotizzato ulteriori investimenti nello sfruttamento di gas non convenzionale. Questi numeri, infatti, confermano l’Algeria al terzo posto fra i Paesi con maggiori riserve di gas, dietro Cina e Argentina ma davanti agli Stati Uniti. Si tratta di una vera e propria accelerazione, considerato che fino a pochi mesi fa il governo aveva smentito di volersi impegnare a breve nella corsa agli scisti bituminosi. In realtà, già da diversi anni, colossi come la Shell, la Total e l’Eni premevano affinché Algeri cambiasse idea. Il primo passo in questa direzione era arrivato a fine 2013 con l’approvazione della nuova legge sugli idrocarburi. Il testo apriva allo sfruttamento di tutti i tipi di risorse non convenzionali, ancorché sottomesso volta per volta all’approvazione del Consiglio dei ministri, al quale la legge assegna il compito di vigilare sugli effetti del fracking per l’ambiente con esplicito riferimento alla tutela delle falde freatiche.
Per quanto riguarda i pozzi di In Salah, il ministro delle Risorse Idriche Hocine Necib ha assicurato che il fracking distrarrà soltanto 7mila metri cubi di acqua e che questi potranno essere reimpiegati in altre operazioni di fratturazione. Nessun commento però sui rischi per l’enorme bacino d’acqua sotterraneo che si estende sotto il Sahara algerino fino alla Tunisia e alla Libia, e da cui dipende pressoché interamente anche la fascia costiera.
Oltre ai dubbi di carattere ambientale, anche la validità finanziaria dell’operazione presenta delle zone d’ombra. Dal punto di vista degli interessi energetici del Paese, la carta dello shale gas non sembra la scelta migliore: poco competitivo sui mercati se il gas convenzionale resta all’attuale prezzo. Inoltre gli studi sulla commerciabilità del gas di In Salah sono ancora in corso. In buona sostanza, si affaccia all’orizzonte il paradosso di possedere enormi risorse ma di non riuscire a piazzarle. Già a metà 2014 Mustapha Mekideche, vice presidente del Consiglio Nazionale Economico e Sociale, avvertiva che il gas da scisti avrebbe appena permesso di coprire la domanda locale di energia, ma non di generare una rendita finanziaria apprezzabile. La corsa allo shale gas quindi potrebbe dipendere da altri fattori. Primo fra tutti il crollo del prezzo del petrolio. Per un paese come l’Algeria, le cui entrate dipendono al 95% dagli idrocarburi, questo significa meno capacità di investimento, un nuovo stop alla diversificazione dell’economia, oltre a una inevitabile diminuzione delle riserve in valuta estera. In più il budget statale per il 2015 è tarato su un prezzo di 130 dollari al barile, più del doppio di quello attuale.
Intanto, le prime perforazioni hanno messo i 55mila abitanti di In Salah sul piede di guerra. Le manifestazioni di protesta si susseguono ininterrottamente dal 1 gennaio e stanno raccogliendo l’appoggio di altre città del sud, fra cui Tamanrasset e Adrar. Il fattore unificante, più che i rischi ambientali derivanti dal fracking, sembra l’accusa rivolta al governo di sfruttare il Sahara algerino a tutto vantaggio delle città della costa, senza adeguati investimenti di ritorno. L’incontro di giovedì 8 gennaio fra 40 delegati di In Salah e il ministro dell’Energia Yousfi si è concluso con un nulla di fatto. Le richieste dei cittadini comprendevano lo stop momentaneo dei pozzi e una moratoria nazionale sul fracking. Dura la risposta del ministro, che li ha accusati di voler frenare lo sviluppo del Paese. Negli ultimi giorni Algeri ha convogliato su In Salah un numero imprecisato di poliziotti di rinforzo.