Offrire soluzioni diverse a problemi applicativi normalmente con poche alternative di risoluzione: questa la principale potenzialità delle nanotecnologie, anche quelle legate al fotovoltaico
Quando un materiale viene ridotto in dimensioni nanometriche (1 nanometro è un miliardesimo di metro), le sue proprietà chimico-fisiche cambiano e diventano addirittura correlabili con la dimensione stessa. Così, ad esempio, una sferetta di silicio di 1 nanometro avrà caratteristiche molto diverse da una sferetta dello stesso materiale, ma grande 2 oppure 3 nanometri. In altri termini è come se la dimensione “nano” caratterizzasse una terza dimensione della tabella periodica degli elementi.
Così finiscono per moltiplicarsi in maniera inattesa ed impressionante gli elementi che possiamo ingegnerizzare per farne dispositivi. Si comprende allora bene quale è la potenzialità intrinseca delle nanotecnologie: offrire soluzioni diverse a problemi applicativi normalmente vincolati a poche alternative di risoluzione.
Un caso tipico è proprio quello del fotovoltaico. Qui il materiale attivo deputato a convertire la radiazione solare in energia elettrica deve ovviamente caratterizzarsi per esibire il massimo assorbimento ottico proprio laddove lo spettro della luce solare si presenta più intenso. La soluzione migliore è, dal punto di vista teorico, un materiale che presenta il massimo assorbimento diretto intorno a 1.6 eV. Prima dell’avvento delle nanotecnologie, si avvicinava a questo valore solo il Telloruro di Cadmio (CdTe), un composto chimico tossico, che veniva utilizzato come semiconduttore nella fabbricazione delle celle solari. Con la diffusione del silicio cristallino invece, più malleabile e meno pericoloso del CdTe, ci si ferma solo ad 1.1 eV. Ora però sappiamo che, ingegnerizzando opportunamente nanostrutture di silicio, possiamo “aggiustarne” le proprietà fisiche fino a massimizzare l’assorbimento ottico proprio laddove ci occorre. In altri termini invece di muoverci trasversalmente lungo la tabella periodica per cercare le caratteristiche che ci occorrono, percorriamo la terza dimensione, fermandoci laddove è meglio per il problema che vogliamo affrontare. In questo modo potremmo realizzare celle al silicio nanocristallino con efficienza del 20% maggiore rispetto a quelle ottenibili con il “semplice” silicio.
E’ intuibile che nel caso del fotovoltaico le prospettive che si aprono sono, in effetti, enormi perché potremmo ingegnerizzare un materiale nanostrutturato in grado di presentare le migliori caratteristiche di assorbimento ottico per ciascuna delle lunghezze d’onda dello spettro solare. Questo è proprio ciò a cui tendono molti laboratori di ricerca: “ensamble di nanostrutture” di uno o più materiali capaci di presentare il massimo assorbimento a tutte le lunghezze d’onda dello spettro (ipotizzando che sia realmente possibile convertire tutti fotoni assorbiti in cariche elettriche e che si possano anche “raccogliere” per produrre della corrente).
Ad oggi però, l’utilizzo di nanotecnologie da applicare al settore del solare fotovoltaico risulta essere ancora molto “contenuto”. I pochi esempi di applicazione, ancora su scala “da laboratorio”, si limitano infatti alle celle solari fotoelettrochimiche “DSSC”, dove le nanoparticelle di biossido di titanio (TiO2) sono utilizzate come “elettrodo elettron-accettore” ed applicate al caso delle celle organiche, dove i “fullereni” vengono normalmente impiegati come elemento accettore.
Recentemente, anche la sintesi di un altro materiale nanostrutturato, – il grafene, uno strato monoatomico di atomi di carbonio organizzati secondo una struttura cristallina a celle esagonali (Nobel per la Fisica 2010 assegnato ad Andre Geim e Kostantin Novoselov della Manchester University) – sembra aver aperto dei nuovi scenari per il fotovoltaico. Il grafene potrebbe infatti consentire la risoluzione del problema che finora ha limitato l’impiego dei “dispositivi Schottky” in ambito fotovoltaico, ovvero l’assorbimento della luce incidente da parte dello strato metallico frontale. L’elevata trasparenza di questo nanomateriale, consente infatti alla luce di passare quasi inalterata, consentendo di realizzare efficienti dispositivi Schottky per applicazioni nel solare.
Non possiamo però dimenticare che, proprio le “nuove” proprietà chimico-fisiche della materia ridotta al nanostato potrebbero nascondere degli inattesi effetti tossici (la storia dell’amianto dovrebbe insegnarci qualcosa da questo punto di vista). Dunque ogni sviluppo in questo particolare settore di ricerca dovrà essere necessariamente accompagnato da attentissime valutazioni su eventuali rischi ambientali.
Girolamo Di Francia (Enea Portici – UTTP)