Gli ultimi progressi della ricerca italiana nel fotovoltaico in perovskite
(Rinnovabili.it) – C’è anche l’ingegno italiano nella nuova ricerca internazionale dedicata al fotovoltaico in perovskite. Gli scienziati dell’Istituto di struttura della materia del Cnr (Cnr-Ism) e dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) hanno preso parte al team che ha realizzato un nuovo approccio per migliorare la stabilità ambientale di questa tecnologia.
Le celle solari a base di pervoskiti sono economiche da produrre e facili da fabbricare: i rapidi progressi raggiunti sul fronte dell’efficienza di conversione, le rendono una delle tecnologie fotovoltaiche più promettenti al mondo. Tuttavia, prima di poter parlare di produzione commerciale, il settore deve risolvere l’alta sensibilità alla degradazione a lungo termine di questi dispositivi quando esposti all’aria e agli agenti esterni. Una delle più promettenti soluzioni al problema arriva oggi proprio dalla nuova ricerca a cui ha preso parte l’Italia e che si è svolta nell’ambito della iniziativa europea Graphene Flagship.
Il team di scienziati ha messo mano alla composizione del fotovoltaico in perovskite riuscendo a migliorarne durata, prestazioni ed economicità di produzione. Il segreto? Un materiale che sta spopolando nel settore dell’innovazione elettronica: il disolfuro di molibdeno (MoS2), minerale utilizzato a livello industriale per lo più come catalizzatore o lubrificante.
Il reticolo cristallino del MoS2 non è altro che un monostrato costituito da atomi di molibdeno e zolfo uniti fra loro. La squadra ha impiegato fiocchi bidimensionali di questo cristallo come strato attivo all’interno delle celle solari in perovskite. Questi dispositivi sono costituiti da un materiale ibrido, comunemente alogenuro di piombo e piombo inorganico, che funge da strato interno fotoattivo in cui si generano le coppie elettrone-lacuna in conseguenza dell’assorbimento dell’energia solare. Le cariche devono essere quindi trasferite in maniera efficiente agli strati di trasporto. I fiocchi di solfuro di molibdeno sono stati posizionati esattamente in mezzo.
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“La maggiore stabilità del dispositivo è dovuta al duplice ruolo benefico del MoS2: da un lato preserva l’interfaccia tra materiale fotoattivo e strato di trasporto e dall’altro rallenta l’invecchiamento strutturale della perovskite”, spiega Barbara Paci del Cnr-Ism. “Il primo effetto trae vantaggio dalla capacità dell’MoS2 di intrappolare tramite intercalazione una vasta serie di ioni e molecole, ostacolando nel caso delle celle solari a perovskite il processo di migrazione degli ioni di Indio dall’elettrodo trasparente verso gli strati interni. Il secondo risultato è ascrivibile alla funzione di barriera che svolge lo strato di MoS2 rispetto alla diffusione di molecole d’acqua dagli strati igroscopici presenti nella cella verso la perovskite, e che di fatto inibisce la degradazione strutturale della perovskite stessa”.
La nuova “aggiunta” ha permesso alle celle di mantenere circa l’80 per cento della loro efficienza iniziale dopo 568 ore di stress test, sotto continua illuminazione in condizioni ambientali, avvicinandosi così agli standard di stabilità industriale.