(Rinnovabili.it) – E se cadesse la barriera tecnica alla commercializzazione su larga scala del fotovoltaico organico realizzato con plastica a basso costo? Se gli esperimenti condotti ormai 20 anni fa, sui cui assunti si basava tutto lo scetticismo per la massificazione di questa tecnologia si basassero su presupposti errati?
È quello che sembra affermare una nuova ricerca della Purdue University di Lafayette, Indiana, le cui conclusioni contraddicono un presupposto fondamentale su cui si fonda la teoria classica sul funzionamento delle celle solari organiche in plastica, suggerendo nuove strategie per la produzione di tecnologia fotovoltaica low cost.
La commercializzazione de celle solari organiche è stata ostacolata fino ad oggi da diverse inefficienze, ma adesso si aprono potenziali vie per la nascita di nuove tecnologie in grado di competere con le celle in silicio standard. Possono essere realizzate utilizzando i rulli in maniera simile alla stampa dei giornali. Poiché le celle solari organiche sono flessibili, potrebbero trovare nuove applicazioni precluse alle celle di silicio rigide, a partire dal fotovoltaico integrato negli edifici.
Ma qual è stato, fino ad oggi, l’errore fondamentale compiuto dai ricercatori? Per spiegarlo è necessario capire che cosa avviene durante le lavorazioni che portano alla creazione della tecnologia fotovoltaica organica.
Il principale collo di bottiglia è questo: poiché il materiale semiconduttore è illuminato, gli elettroni si muovono da un livello di energia ad un altro. A causa della struttura atomica, gli elettroni nel semiconduttore occupano una regione di energia chiamata “banda di valenza” quando il materiale è al buio. Ma nel momento in cui lo si illumina, gli elettroni assorbono energia e saltano in una regione chiamata “banda di conduzione”. In questo passaggio, si lasciano alle spalle “buchi” nella banda di valenza, generando le cosiddette coppie elettrone-lacuna, delle quasiparticelle che prendono il nome di eccitoni.
Bisogna mantenere questi due elementi a carica opposta separati, o si ricombineranno non si genererà corrente. Questa “separazione di carica” è mantenuta con l’inserimento di numerose strutture chiamate eterogiunzioni bulk, che però non è facile installare quando la produzione richiede ritmi industriali.
E qui si inseriscono i risultati della ricerca condotta dalla Purdue University: sorprendentemente, essi affermano che non c’è bisogno di eterogiunzioni, ma basta invertire i contatti metallici (di due metalli differenti) posti su ciascuna “faccia” delle celle fotovoltaiche organiche. La configurazione standard della cella fa sì che la luce in ingresso generi un campo elettrico concentrato sul fondo di essa. In questo modo, per le coppie elettrone-lacuna è più facile ricombinarsi. È sufficiente ruotare i contatti di modo che il campo si generi nella parte superiore della cella per rendere più agevole la separazione di carica.
Grazie a questo semplice accorgimento, il futuro del fotovoltaico organico potrebbe cambiare. Tantopiù che, se prima si adoperavano due tipi di polimeri organici per produrre le eterogiunzioni, d’ora in poi ne basterà soltanto uno.