Rinnovabili

Cosa serve e cosa manca al fotovoltaico in Italia?

Fotovoltaico in Italia: cosa serve al settore secondo CCE Italia
L’impianto realizzato da CCE Italia ad Ardea (Roma). Crediti: CCE Italia

Decreto Aree Idonee, FER X, TU Rinnovabili: la strada giusta per il fotovoltaico in Italia, vista da CCE Italia

Con il recente Dl Agricoltura, l’atteso Decreto Aree Idonee, la bozza sul nuovo testo unico e il Decreto FER X in dirittura d’arrivo, il settore del fotovoltaico in Italia è entrato in un periodo di rapidissima trasformazione normativa. Parallelamente, lo scenario è incalzato dagli obiettivi di transizione europei e del Pniec, dalle incertezze sui mercati energetici e dai prezzi elevati del gas naturale e dell’energia elettrica.

Cosa serve e cosa manca al fotovoltaico in Italia? La visione di Sandro Esposito, Managing Director di CCE Italia, società che sviluppa, realizza e gestisce impianti fotovoltaici a terra, con una pipeline da 2,4 GW sul territorio nazionale.

Una delle ultime novità in campo normativo è il Decreto Aree Idonee, che arriva dopo una lunga attesa. Qual è la sua lettura del Decreto nel contesto in cui si inserisce?

È l’esempio di come spesso le norme nascono senza una visione d’insieme del quadro generale. Ci riporta indietro di molti anni e si innesta in un panorama già compromesso da vari problemi.

In primo luogo, i ritardi: le norme stabiliscono tempi chiari per l’iter autorizzativo, ma di fatto questi non vengono mai rispettati dagli enti con cui interloquiamo – salvo in casi e Regioni virtuose, come il Lazio. Quindi oggi per ottenere le autorizzazioni dobbiamo ricorrere ad azioni legali: ci rivolgiamo al Tar o al Consiglio di Stato per ottenere ciò che dovremmo ottenere altrimenti. Con ulteriori ritardi sui nostri progetti, da 6 mesi a 1 anno.

Fotovoltaico in Italia: cosa serve al settore secondo CCE Italia - Sandro Esposito
Sandro Esposito, Managing Director di CCE Italia

Oggi, per noi, il 10% del costo di un impianto è imputabile a spese legali: questo per me è un insuccesso. A ben guardare, è un insuccesso per il sistema-Paese, perché il mio obiettivo aziendale di allacciare l’impianto e produrre energia pulita è un obiettivo utile alla collettività.

Altro problema l’enorme diversificazione territoriale e il rapporto irrisolto in termini di competenze tra Stato e Regioni, che né il Decreto Aree Idonee, né il prossimo FER X, che si configura in contrasto con il Decreto, risolveranno. Noi produttori gioimmo a luglio 2022 quando lo Stato assunse la competenza per le VIA: pensavamo che avrebbe velocizzato l’iter, ma ad oggi non posso ritenermi soddisfatto di come i progetti vanno avanti in VIA nazionale.

Cosa serve, allora, per lavorare meglio, soprattutto con gli enti con cui vi interfacciate?

Serve rispettare l’iter già delineato e far partecipare gli enti al processo decisorio. Come è già previsto, peraltro. Il processo oggi è già ben declinato dalle norme esistenti, a partire dal Decreto Legislativo n. 387 del 29.12.2003.  Bisognerebbe attuare la norma invece di intervenire con modifiche, garantire che vengano seguite anziché “semplificarle”. Garantire, ad esempio, che tutti coloro che devono partecipare a una Conferenza Unificata dei Servizi si presentino per discutere i progetti nella sede preposta a farlo. Molto spesso non è così.

Dove però ci sono istruttori di pratiche volenterosi di applicare la norma e far fluire il processo, le cose filano lisce. Mi chiedo quindi se non ci sia una sorta di volontà da parte dei dirigenti pubblici, che si confrontano con il settore da 20 anni, nel non accelerare i processi. D’altronde, accelerare significa anche dover affrontare altri problemi, come quelli legati alla rete.

Noi vorremmo un processo lineare, che rispetti i tempi e che, decorsi i tempi, faccia valere il parere per acquisito, in maniera perentoria.

Il testo unico sulle rinnovabili dovrebbe però riordinare il quadro e renderlo più efficiente.

Sì, è un buon punto di ri-partenza. Mi chiedo però: quando la mia società saprà finalmente dalle Regioni quali sono le aree idonee? E che criteri sceglieranno le Regioni? La sensazione è che le FER siano trattate più come un fastidio anziché un’opportunità, generando un approccio alla questione delle aree idonee esclusivamente politico e per nulla tecnico-operativo.

C’è anche un problema di percezione: i produttori come CCE Italia sono spesso visti come invasori e speculatori, quando in realtà facciamo impresa come tanti altri. E a beneficio della comunità intera. In più, uno dei nostri obiettivi aziendali è dotarci di un team di primo livello, per cui miriamo a tenere in Italia, tramite le migliori condizioni economiche e contrattuali, talenti che altrimenti andrebbero “in fuga” all’estero.

Il valore di questo lavoro spesso non viene percepito, ancora meno se si parla di utility scale. Qui scatta la narrativa del consumo di suolo agricolo, che a mio avviso sposta lo sguardo dai problemi più urgenti dell’agricoltura. Due dati: in 10 anni in Italia (2012-2022) la superficie coperta da boschi è cresciuta di 587mila ha, espandendosi dove le aree agricole vengono lasciate libere. Come ricorda Italia Solare, ogni anno sono infatti oltre 120mila gli ha di superficie agricola che viene abbandonata. Basterebbe un terzo di questa superficie per coprire il contributo del fotovoltaico in Italia agli obiettivi del Pniec. Il problema del Ministro Lollobrigida è dunque il fotovoltaico o la perdita di suolo agricolo?

Ha toccato il tema dell’infrastruttura di rete. Al 31 marzo 2024, dati Terna, le richieste di connessione alla rete per il fotovoltaico arrivano a quasi 145 GW. Di questi, 5,75 GW sono già autorizzati e pronti a partire. Come interpreta questa forbice così larga?

Il divario ci dice che la possibilità di richiedere una connessione è troppo aperta: presentano domanda anche operatori non qualificati. I costi sono contenuti (3.000€ per la presentazione della domanda e 2.000€ circa di costi tecnici) e questo apre la strada anche a chi è meno interessato – ed equipaggiato – a realizzare l’investimento richiesto e più, invece, a rivendere la propria connessione a terzi. Questo però ingolfa il meccanismo per realtà strutturate che hanno la capacità di portare a compimento il progetto.

Come si fa a scremare?

Serve un ingresso più selezionato: via libera solo a chi può dimostrare di essere in grado di realizzare l’investimento.

I dati Terna ci dicono anche che la nostra infrastruttura di rete non è stata adeguata a ricevere l’ondata di crescita del settore delle rinnovabili – del tutto prevedibile e prevista. Questo ci riporta al tema delle aree idonee: il compito dell’operatore di rete sarebbe stato e sarebbe quello di sedersi a un tavolo con le Regioni e lo Stato per mappare tutti i punti di connessione immediatamente sfruttabili sul territorio per accogliere connessioni da 1 a 3 GW e poi, intorno a questi, sviluppare la mappa delle aree idonee. Cosa me ne faccio, come produttore, di un’area idonea collocata in un territorio remoto e scollegato?

Qual è la sua idea di governance ideale da mettere in campo per il settore, soprattutto – di nuovo – sulle aree idonee?

Noi produttori, gli operatori di rete, il Governo, le Regioni e gli enti locali devono sedere a uno stesso tavolo e definire le aree idonee condividendo e integrando le competenze e informazioni in capo a ciascuno. A quel punto, ci sono due cose da tenere a mente. La prima, che i progetti autorizzati, ma non ancora realizzati e allacciati alla rete, non possono fare numero per il calcolo degli obiettivi di Burden Sharing: ci sono molti fattori che possono far sì che, nella maratona di un progetto, l’impianto non prenda forma, o sia diverso dal progetto iniziale.

In secondo luogo, stiamo parlando di obiettivi minimi: con gli 80 GW di rinnovabili al 2030 è come se stessimo lavorando per il 6 politico, quando potremmo fare molto di più, soprattutto con il contributo dei BESS. Perché non desiderare un 100% di energia rinnovabile? Il Burden Sharing rischia di essere così un invito ad accontentarsi.

Si sta lavorando al testo unico per le rinnovabili: quali sono gli elementi minimi che non possono mancare per renderlo un buono strumento normativo?

Prima ancora di guardare al testo unico per le rinnovabili, bisogna risolvere quello che ritengo il vero problema del settore delle rinnovabili oggi, ovvero che non viene ancora percepito come un beneficio concreto e tangibile da tutta la popolazione. Lo si può capire: da quando si è iniziato a produrre energia pulita, il costo dell’elettricità in bolletta non è diminuito, anzi, è persino aumentato.

Per invertire questa percezione, è fondamentale realizzare il disaccoppiamento del costo del gas da quello dell’energia: il costo dell’energia deve essere differenziato per fonte. Così i cittadini toccherebbero con mano che produrre energia da fonti rinnovabili è la maniera più economica per produrre energia, con un vantaggio per loro e per tutte le produzioni ad alta intensità energetica.

Oggi il PUN, che come sappiamo si basa sul costo del gas, è di 0,11631 €/kWh.  Sempre oggi, io so che posso vendere l’energia che produco a 0,05-0,07 €/kWh, garantendomi comunque il guadagno necessario a sostenere la mia attività imprenditoriale. Perché continuare a seguire il gas? Disaccoppiare significa ridurre gli importi in bolletta e rendere così chiaro a una famiglia che il parco solare che si vede nei campi fuori dalla finestra produce un beneficio diretto.

Gli italiani lo stanno iniziando a percepire con le CER. Ma quante se ne possono creare? E sono incentivate, con oneri per la collettività. Oggi la tecnologia è matura e consente progetti in grid parity senza nessun bisogno di incentivi. Anche per questo, il disaccoppiamento è la strada principale da percorrere.

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