Un futuro di ferro per i pannelli solari
(Rinnovabili.it) – Abbassare i costi del fotovoltaico è stato da sempre l’obiettivo di chi ha studiato e ottimizzato le cosiddette celle di Grätzel o celle solari a sensibilizzante organico (DSSC). Si tratta di una tecnologia ancora immatura ma a cui non mancano i primi tentativi di industrializzazione e commercializzazione. In questo campo l’ultimo progresso arriva dall’Università di Basilea, in Svizzera, dove un team di scienziati ha realizzato un nuovo “fotovoltaico in ferro“. Ma per comprendere la novità è necessario fare qualche passo indietro.
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Celle di Gratzel, come funzionano?
Le celle di Grätzel si basano sull’impiego di semiconduttori inorganici – generalmente TiO2 – e coloranti (o sensibilizzatori) costituenti il materiale fotoattivo. Quest’ultimi possono essere composti da molecole organiche o metallo-organiche sintetiche. La scelta solitamente si basa sulla loro capacità di fornire un ampio assorbimento dello spettro solare e mantenere a lungo lo stato eccitato per il trasferimento di carica al semiconduttore. I complessi a base di rutenio rappresentano ad oggi la migliore scelta, riuscendo a soddisfare tali requisiti; e offrendo efficienze di fotoconversione intorno al 12% circa. Tuttavia, il rutenio è un metallo raro e costoso che inficia l’obiettivo primario con cui sono nate le celle solari DSCC.
È qui che entra in gioco il fotovoltaico in ferro. Per molto tempoi, gli esperti hanno ritenuto che i composti del ferro non fossero adatti a queste applicazioni perché il loro stato eccitato, in seguito all’assorbimento della luce, risultava troppo breve per essere utilizzato a fini energetici. La situazione è cambiata circa sette anni fa con la scoperta di una nuova classe di composti del ferro con i cosiddetti carbeni N-eterociclici (NHC).
Il fotovoltaico in ferro
Il gruppo di ricerca svizzero, guidato dalla dott.ssa Mariia Becker, ha impiegato gli NHC per creare un nuovo sensibilizzante. “Sapevamo di dover sviluppare materiali che si attaccassero alla superficie del semiconduttore e il cui carattere consentisse contemporaneamente di ottimizzare la disposizione dei componenti funzionali all’assorbimento luminoso“, spiega Becker.
Per ottenere ciò i chimici hanno impiegato un duplice approccio: in primo luogo, hanno incorporato gruppi di acido carbossilico (come si trovano nell’aceto) nel composto di ferro per legarlo alla superficie del semiconduttore. Quindi, hanno reso i composti “grassi” aggiungendo lunghe catene di carbonio per ottenere uno strato superficiale più fluido e più facile da ancorare.
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Questi prototipi di celle solari hanno raggiunto un’efficienza complessiva di appena l’1%, a fronte del 20% offerto dai dispositivi fotovoltaici oggi in commercio “Tuttavia – afferma con convinzione Becker – i risultati rappresentano una pietra miliare che incoraggerà ulteriori ricerche su questi nuovi materiali”. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista specializzata Dalton Transactions (testo in inglese).