Il presidente americano Joe Biden sta valutando di imporre un bando alle importazioni di polisilicio dallo Xinjiang. Si tratta di un componente fondamentale per i pannelli fotovoltaici di cui la Cina controlla il 45% del mercato. La produzione si intreccia con la repressione della minoranza uigura
Guerra commerciale, atto secondo: Washington vuole ripulire le filiere delle tecnologie rinnovabili
(Rinnovabili.it) – Il decoupling dell’economie della Cina e degli Stati Uniti sta per investire le filiere delle tecnologie rinnovabili. La Casa Bianca sta valutando di mettere al bando le importazioni di polisilicio, un componente fondamentale dei pannelli fotovoltaici di cui Pechino è uno dei massimi esportatori mondiali. Il motivo? Il lato cinese della filiera è coinvolto nella repressione della minoranza uigura attraverso i campi di lavoro forzato nello Xinjiang.
“Il tipo di brutalità di cui stiamo parlando è offensivo per chiunque abbia mai visto questo tipo di pratiche in uso”, sostiene il deputato democratico Dan Kildee, tra i promotori della proposta atterrata sulla scrivania del presidente Joe Biden. “E lo stanno facendo a vantaggio economico delle aziende che stanno mettendo a rischio le aziende americane”.
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L’iniziativa chiede che gli Stati Uniti mettano delle restrizioni all’importazione di polisilicio simili a quelle imposte da Trump, a suo tempo, su prodotti come il cotone e i pomodori, entrambi voci di rilievo dell’export della regione nord-occidentale della Cina. Inevitabilmente, un bando di questo tipo stravolgerebbe le filiere delle tecnologie rinnovabili. Pechino, infatti, produce la metà del polisilicio che viene utilizzato a livello globale. E se da un lato questa misura permetterebbe all’industria americana di crescere, dall’altro lato il peso specifico cinese è così grande che la transizione energetica americana probabilmente dovrebbe rallentare il passo.
Al momento ci sono diverse opzioni disponibili al vaglio di Biden. Il presidente potrebbe decidere uno stop più ristretto, limitato solo ai prodotti delle aziende che sono basate in Xinjiang. Oppure, potrebbe dare mandato alle autorità doganali americane di bloccare nei porti e alle frontiere qualsiasi prodotto sia sospettato di avere collegamenti con violazioni dei diritti umani compiute da Pechino.
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A metà maggio, un dossier molto controverso dell’università di Sheffield aveva ricostruito i legami tra la filiera del polisilicio cinese e la repressione della minoranza musulmana che abita in una regione chiave per i collegamenti di Pechino con l’Asia centrale e per la proiezione verso l’Europa per via terrestre. Due i programmi governativi cinesi dietro ai quali, secondo i ricercatori inglesi, si nasconde il lavoro forzato e la violazione dei diritti di base degli uiguri: quelli che fanno riferimento a “surplus di lavoro” e a “trasferimento di lavoro”.
Allargando lo sguardo a tutta la filiera delle tecnologie rinnovabili che insiste in Cina, i ricercatori di Sheffield hanno identificato in tutto 11 compagnie coinvolte nello sfruttamento del lavoro forzato, 4 altre aziende che usano lavoro forzato all’interno di parchi industriali, e ben 90 compagnie cinesi e internazionali la cui filiera incrocia a vario titolo quella del polisilicio dello Xinjiang.