Rinnovabili

“Cut, don’t kill”, ultimo atto del pv inglese

Gli incentivi pubblici a favore del fotovoltaico sono tornati a dominare il dibattito inglese sulle rinnovabili. Dopo i tagli introdotti lo scorso agosto a carico degli impianti di maggiori dimensioni, il governo Cameron ha avviato alla fine di ottobre la consultazione pubblica per un secondo round di riduzioni da introdurre già dal prossimo 12 dicembre, questa volta verso i pannelli di taglia minore (al di sotto dei 250 kW). L’industria di settore, ancora scottata dall’esperienza estiva, ha reagito con prevedibile disappunto, contestando la proposta tanto nel metodo, ritenuto eccessivamente affrettato, che nel merito – i tagli più corposi, tutti al di sopra del 50 per cento, andrebbero a colpire gli impianti tra i 4kW ed i 50 kW. Per una lista dettagliata si rimanda al documento ufficiale.

La Feed-in Tariff (FiT) a favore degli impianti fotovoltaici è stata fino ad oggi una storia di successo. Entrata in vigore nell’aprile del 2010 secondo i termini posti in essere dalla precedente amministrazione laburista, la tariffa incentivante ha contribuito alla realizzazione di oltre 100mila impianti, quasi quadruplicando la capacità installata in circa diciotto mesi. La Gran Bretagna è ben lungi dal potenziale produttivo di paesi leader a livello europeo quali Italia e Germania, ma l’incremento degli ultimi anni appare comunque rilevante. I livelli di incentivazione si sono rivelati col tempo particolarmente generosi, garantendo un ritorno medio sull’investimento iniziale intorno al dieci per cento (se non addirittura picchi del quindici), ben superiori alle previsioni dei tecnici ministeriali che lo avevano fissato in una banda tra il cinque e l’otto per cento. L’aumento della bolletta energetica e la riduzione dei costi dei componenti hanno entrambi influito sulla redditività finale dell’investimento – i costi degli impianti si sono ridotti fino al 70 per cento negli ultimi ventiquattro mesi, secondo i dati di Bloomberg New Energy Finance. La Gran Bretagna ha dovuto affrontare suo malgrado gli stessi problemi che hanno interessato altri mercati maturi, ed il governo Cameron ha deciso di intervenire tempestivamente, senza attendere la revisione del meccanismo incentivante prevista ad aprile 2012. La scorsa estate, ai tempi della prima riduzione per le installazioni maggiori, il Dipartimento dell’energia e dei Cambiamenti Climatici aveva evidenziato l’esistenza di iniziative imprenditoriali di natura puramente speculativa e paventato il rischio di un possibile sforamento del tetto di 860 milione di sterline allocato dal Tesoro per la conduzione del sistema fino al 2015. Con il nuovo sistema tariffario attualmente oggetto di consultazione, gli analisti del ministero prevedono un ritorno medio sull’investimento del 4,5 per cento, minore rispetto a quando la FiT è stata introdotta ma comunque superiore, non si stancano di sottolineare, degli interessi ottenuti su un normale conto bancario. La consultazione raccoglie inoltre pareri sulla proposta di limitare l’erogazione del sussidio pubblico solo per gli impianti montati su edifici che possano vantare un livello minimo di efficienza energetica.

Buona parte dell’industria del fotovoltaico non ha nulla da eccepire sulla necessità di ridurre ulteriormente l’ammontare della FiT, considerando soprattutto che il sussidio viene pagato dalla totalità degli utenti finali tramite prelievo in bolletta. E’ piuttosto il modo in cui il ministero competente avrebbe condotto l’intera faccenda ad aver adirato imprese e associazioni ambientaliste. Il piano del governo avrebbe previsto un lasso temporale troppo breve tra l’avvio della consultazione pubblica (31 ottobre) e l’introduzione della nuova tariffa (12 dicembre), senza garantire all’industria di comparto il tempo necessario per adeguarsi al prevedibile calo di domanda a livello nazionale nell’installazione di pannelli fotovoltaici – basti pensare, sottolineano le associazioni di categoria, che le previsioni su ordini, scorte e ammontare della forza lavoro sono state stilate sui trend degli ultimi mesi, basati a loro volta sulle garanzie implicite nell’attuale livello di incentivazione. Le associazioni industriali propongono una transizione meno traumatica, con una riduzione media della tariffa del 25 per cento, praticamente la metà della cifra adottata dal governo, ed una implementazione graduale dei tagli, magari da spalmare da qui al prossimo aprile, secondo un calendario ritenuto più congeniale alle logiche di mercato. Il provvedimento governativo è stato inoltre impugnato anche in sede giudiziaria, poiché prevede l’entrata in vigore del nuovo regime dieci giorni prima del termine della consultazione pubblica che dovrebbe raccogliere pareri sul regime stesso (23 dicembre). Il 22 novembre imprese ed organizzazioni del settore hanno organizzato una marcia di protesta su Westminster, sotto lo slogan Cut, don’t kill, con l’obiettivo di esercitare pressione sul governo e magari convincere il primo ministro Cameron ad interessarsi della vicenda. Nell’eventualità che il Dipartimento dell’energia prendesse in seria considerazione la possibilità di emendare i termini della riforma, nessuna modifica potrebbe essere introdotta prima del termine del periodo consultivo e della successiva rassegna delle proposte pervenute. Il che vuole dire che almeno fino a gennaio inoltrato l’entità dei tagli rimane comunque invariata.

Sulle ragioni che avrebbero indotto il ministero ad agire in maniera così drastica nella consapevolezza di adirare l’industria di settore si possono avanzare ipotesi puramente speculative. Le ragioni economiche addotte hanno una loro oggettiva validità, ma la radicalità dell’intervento, tanto nei tagli che nella modalità esecutiva, potrebbe indicare ragioni più profonde di natura politica, in cui sarebbe in discussione la stessa strategia nazionale per il perseguimento di un futuro energetico basato sulle rinnovabili. E’ interessante, a questo proposito, l’interpretazione del commentatore ambientale James Murray, direttore del sito specialistico Business Green e tra i più ascoltati nel settore. Murray avrebbe individuato una divisione in seno al Dipartimento dell’Energia, e più in generale nel governo di coalizione, tra un’ala più favorevole allo sviluppo delle rinnovabili tramite decentralizzazione e microgenerazione locale, ed un’altra più incline a favorire un sistema distributivo “top-down”, incentrato sulla capacità produttiva di grossi impianti e maggiormente in sintonia con gli interessi delle principali utility nazionali (le cosiddette “big six”). Sarebbe la dialettica tra queste due forze ad avere un’influenza sostanziale sulla politica nazionale in ambito energetico.

 

 

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