L’aggiunta di diatomee sullo strato attivo delle celle polimeriche permette di renderle più efficienti riducendo il materiale necessario
Migliora l’efficienza delle celle solari organiche
(Rinnovabili.it) – Non importa quanto avanzata possa essere la tecnologia umana, nella maggior parte dei casi Madre Natura ci avrà battuti sul tempo facendo un lavoro decisamente migliore. Ecco perché la ricerca energetica mondiale continua ad affidarsi alla natura e agli studi biomimetici per risolvere i principali problemi di progettazione. Lo dimostra, da ultimo, il lavoro svolto alla Yale University. Qui un team di scienziati ha arruolato le diatomee, alghe unicellulari, per migliorare il tasso di assorbimento della luce nelle celle solari organiche.
Questi organismi presentano una particolare struttura nel loro “guscio” in silice che gli permette di manipolare la luce in modo tale da sfruttarla al massimo. Proprietà che potrebbe rivelarsi particolarmente preziosa per la progettazione di celle solari organiche a basso costo ed efficienti. Una delle principali sfide per questa tecnologia fotovoltaica, infatti, è la presenza di strati attivi molto sottili (da 100 a 300 nanometri), il che limita la loro efficienza di conversione della luce in elettricità. Tre le opzioni per correggere il problema, c’è anche l’incorporazione di nanostrutture che catturino e diffondano i raggi solari per migliorare i livelli di assorbimento. Tuttavia fino ad oggi questi approcci si sono dimostrati troppo costosi per la produzione su larga scala.
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È qui che le diatomee entrano in gioco. Sono state ottimizzate per l’assorbimento della luce attraverso miliardi di anni di evoluzione adattativa. È il tipo di fitoplancton più comune in natura, è economico e può essere trovato quasi ovunque. Il team di ricerca, che include collaboratori della NASA, dell’Università di Princeton e dell’Università di Lincoln, ha disperso le alghe in tutto lo strato attivo della cella solare, riducendo in questo modo la quantità di materiale necessario, ma mantenendo gli stessi livelli di produzione elettrica. “Siamo stati in grado di comprendere quale fosse la giusta concentrazione e quanto di questo materiale è necessario per migliorare le nostre celle”, spiega Lyndsey McMillon-Brown, della Yale University. “È davvero vantaggioso perché i materiali che utilizzavamo erano costosi e molto rari”.
Il risultato? Efficienza migliorata del 30 per cento e spessore ridotto del 36 per cento. “Non ha interrotto i normali passaggi di fabbricazione, – ha aggiunto McMillon-Brown – quindi non aggiunge complessità o sfide e può rappresentare sicuramente una semplice aggiunta alle celle solari organiche esistenti commercializzate oggi in commercio”.