(Rinnovabili.it) – Dopo oltre un decennio di crescita aggressiva smisurata, la domanda mondiale di carbone si è fermata. La colpa (o piuttosto il merito) è quasi esclusivamente della Cina che da due anni a questa parte mostra molto meno appetito per questa fonte energetica. A rivelarlo è oggi l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) dalle pagine del suo Medium-Term Coal Market Report 2015. I nuovi dati elaborati dalla IEA rivedono al ribasso le precedenti stime ed attribuiscono al consumatore numero uno al mondo di carbone l’attuale stallo. Il Gigante asiatico sta infatti ri-orentando la sua politica energetica, mettendo davanti alle fonti fossili, il grande idroelettrico, il fotovoltaico, l’eolico e il nucleare e creando di fatto un disturbo nei grafici mondiali.
“L’industria del carbone sta facendo i conti oggi con enormi pressioni, e la ragione principale – ma non l’unica – è la Cina“, ha dichiarato il direttore esecutivo dell’Agenzia Fatih Birol, in occasione della presentazione del Report a Singapore. “La trasformazione economica nella Repubblica Popolare e le politiche ambientali nel resto del mondo mondo – tra cui il recente accordo sul clima di Parigi – probabilmente continueranno a limitare la domanda mondiale di carbone”.
Al di fuori della Cina, la IEA prevede che la domanda continuerà a crescere, ma moderatamente, fino al 2020 come un calo strutturale in Europa e negli Stati Uniti compensato dalla crescita in India e nel Sud-Est asiatico. I paesi (India esclusa) con il tasso di aumento più alto nell’uso del carbone fino al 2020 saranno Indonesia, Vietnam, Malesia e Filippine, dove si concentrerà il maggior numero di nuove centrali termoelettriche, di cui quasi la metà progettate ancora con tecnologie subcritiche inefficienti.
E nello stesso giorno di pubblicazione del report, la Gran Bretagna chiude la sua ultima miniera in profondità. Parliamo della storica Kellingley Colliery, conosciuta anche come “Big K”, dal momento che era il giacimento più grande in Europa grazie a una capacità di produzione di 900 tonnellate all’ora. Dietro la scelta di Londra ci sono motivi solo in apparenza ambientalisti. Oggi l’Unione nazionale dei minatori ha accusato il governo di non aver difeso il settore, di aver messo troppe tasse e soprattutto di aver favorito le importazioni dall’estero –Russia, Colombia e Sud Africa – dove una tonnellata di carbone costa meno di 40 (trasporto incluso) contro i 60 euro di una tonnellata estratta nello Yorkshire.
D’altra parte la politica energetica del premier Cameron lascia poco spazio a fraintendimenti: se è vero che da un lato annuncia l’uscita della Gran Bretagna dal carbone entro il 2025, dall’altro si trova impegnato a convincere il Parlamento a votare il via libera per la ricerca di “shale gas” e a costruire la rinascita del nucleare nazionale.